"Non siamo pacifisti. Siamo avversari della guerra imperialista per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell'interesse del socialismo."
(Vladimir Ilič Ul'janov, Lenin, 1917)

29 ottobre 2010

"Israele, operai palestinesi esposti al bromuro di metile non ricevono neanche salario minimo"

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Articolo condiviso da: Nena News.
(segnalato via Facebook da G.R.)

Continua l’agitazione dei lavoratori della fabbrica Sol-Or, sulla «Linea verde» tra Israele e Cisgiordania, esposti al gas vietato dal Protocollo di Montreal, che ricevono meno di 600 euro al mese.

Gerusalemme, 25-10-10
– Novanta shekel (18 euro) per otto ore di lavoro a contatto con il bromuro di metile. E’ questa la retribuzione da fame accordata sino ad oggi ai 70 operai palestinesi della Sol-Or, una fabbrica israeliana situata nella zona industriale di Shalom Nitzanei, sulla «Linea Verde», tra Oz Nitzanei e la città palestinese di Tulkarem. I lavoratori hanno detto basta allo sfruttamento che subiscono da anni e chiedono l’applicazione di una sentenza del 2008 con la quale l’Alta Corte di Giustizia ha affermato che anche le aziende israeliane situate sulla «Linea Verde» o all’interno della Cisgiordania devono corrispondere ai propri dipendenti palestinesi il salario minimo previsto per i cittadini israeliani.



La vertenza si trascina dal 2007, quando i lavoratori presentarono le stesse richieste alla proprietà senza ottenere alcun risultato . 

«Ho lavorato in quella fabbrica per 10 anni ricevendo solo 90 shekel al giorno», ha detto un operaio, Fahri, al quotidiano Jerusalem Post,«ho sempre avuto buoni rapporti con gli amministratori ma non rinuncio al salario minimo». Fahri ha aggiunto che la direzione ha offerto di raggiungere compromessi con i lavoratori, ma solo su base individuale.
La protesta ha origine anche nel tipo di attività della Sol-Or che presenta seri rischi per la salute. I lavoratori devono verificare che i contenitori di bromuro di metile siano puliti, esponendosi al gas altamente tossico. Molti di loro lamentano danni alla vista e all’apparato respiratorio. Prima di essere bandito dal Protocollo di Montreal, il bromuro di metile è stato largamente impiegato come fumigante per la geodisinfestazione, soprattutto nelle colture protette, nel vivaismo e nella produzione di sementi.
L’avvocato del lavoro Ahmad Najib ha riferito che molti degli operai hanno lavorato in fabbrica 15 anni, in condizioni rischiose, senza avere percepito almeno il salario minimo. La proprietà da parte sua non affronta il problema e si limita ad accusare un gruppo di dipendenti che, a suo dire, avrebbe esercitato forti pressioni sugli altri lavoratori per bloccare le attività produttive.
Le zone industriali sorte lungo la «Linea Verde» sono oggetto da lungo tempo di critiche poiché a non pochi proprietari di aziende e fabbriche israeliane appare lecito non rispettare i diritti dei lavoratori previsti dalla legge nei riguardi di operai e manovali palestinesi. Diversi imprenditori giustificano i salari più bassi con il costo della vita meno elevato in Cisgiordania rispetto a Israele e arrivano al punto da non garantire neppure il salario minino ai lavoratori palestinesi.
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28 ottobre 2010

Salendo la scala del pollaio (di Lurtz)

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Mamma mia che impeto!
Non si son ancora completamente spenti i fuochi della manifestazione Fiom del 16 ottobre, che incalza con veemenza la prossima manifestazione Cgil.
Il 27 novembre. Sabato, 27 novembre.
Non so se i lavoratori italiani sono mentalmente e fisicamente pronti ad affrontare tutte queste prove, tutta questa tensione sindacale.
Di sciopero generale se ne parla a malapena, ma è meglio così. Esagerare sarebbe controproducente.





Aldilà dello scherzo e dell'ironia, mi si permetta la trivialità: non c'è proprio un cazzo da ridere!
Il sindacato, vista la "ferocia" dei metodi, potrebbe compilare con largo anticipo l'agenda delle proteste anche per il 2011.
Ai partiti, invece, tutto ciò pare interessare a corrente alternata perché, pare, abbiano questioni ben più importanti a cui pensare. Ad esempio come programmare le possibili alleanze nel caso si vada al voto in primavera.
Prima o poi mi stancherò di ripetere che non sono questi i motivi per cui gli elettori si sentono attratti e decidono di votare "comunista". E quel che è peggio, è che sono certo che chi di dovere lo sa benissimo, ma semplicemente, se ne fotte!
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26 ottobre 2010

I lavoratori del comparto "servitù" (di Lurtz)

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Personalmente non sento di avere difetti di dignità nel fare il lavoro che faccio, però che fatica.
Non fisica, a quella in qualche modo ci si abitua, ma mentale. E credo che sia così per tutti quelli che, appunto come me, svolgono quel genere di lavoro che io definisco "di servitù": colf, baristi, camerieri, commessi, custodi di stabile, eccetera. Si badi, non chi ha "semplicemente" a che fare col pubblico, ma chi lo "serve" il pubblico (e il privato, ovviamente).
Perché non importa "chi" sei, ma solo "cosa" fai.
Come dicevo, non ritengo che chi pulisce un cesso o porge un piatto o rimette ordine una casa (altrui) sia un essere inferiore. E chi lo fa non deve sentirsi tale.
Si può benissimo possedere una o più lauree o non avere nemmeno terminato il corso obbligatorio di studi, non per questo si dovrebbero patire vessazioni di alcun tipo se si svolge un lavoro cosiddetto "umile". Eppure la realtà è diversa.
Infatti, nell'immaginario collettivo, chi "serve" è "servo" e, in quanto tale, deve essere comandato a bacchetta e/o trattato da sub-umano.
E tutto ciò aldilà del trattamento riservato da parte del padrone.
Mi riferisco infatti, in primo luogo, al comportamento di chi usufruisce del servizio e di chi "vede" la situazione da fuori.
La prima umiliazione che si tenta di fare ingoiare si espleta quando si parla con altre persone. Ad esempio, mi è capitato di sentirmi dire: "Perché fai questo lavoro? Una persona come te potrebbe ambire a ben altro che lavare i pavimenti". Oppure genitori che dicono ai figli: "Potresti fare il cameriere, in attesa di un lavoro come si deve".
Non casualmente, questi lavori vengono svolti in maggior percentuale da stranieri, al punto che il sottoscritto a causa del cognome di origine sarda si sia sentito domandare: "Ma lei è italiano?".
Poi c'è la questione del rapporto col padrone.

Chi svolge questi lavori, nella maggior parte dei casi, rientra nella categoria di dipendente di "aziende con meno di 15 dipendenti". E qui si ride, amaramente.
Queste categorie non beneficiano degli ammortizzatori sociali; sono meno tutelate in caso di licenziamento (art. 18, questo sconosciuto...); e altro punto dolente è la questione contrattuale, nel senso che, se non si lavora in nero, il contratto è un miraggio.
L'erba del vicino è sempre più verde, e infatti capita di sentirsi dire: "Ah, beato te che fai il barista. Sempre a contatto con bella gente. Un lavoro creativo che da soddisfazioni", peccato però che la vita reale non sia propriamente quella che si vede nei film. L'entusiasmo scema via via davanti al fatto che servire caffè e cappuccini tutti i giorni alla stessa ora e sempre alle stesse persone non è poi così differente dall'assemblare pezzi in un'officina metalmeccanica, con la differenza che, nel caso dei baristi, si è costretti a indossare scomodi papillon, avere un sorriso stampato in faccia anche se hai appena ricevuto l'ingiunzione di sfratto e che se ti scappa di dover pisciare può anche capitare di doverla trattenere per intere mattinate.
Mi auguro che non si fraintenda il fatto che qui non si sta sostenendo che lavorare in fabbrica sia meglio o più bello, ma semplicemente che ogni impiego ha i suoi pro e i suoi contro.
Una grossa differenza, sempre all'interno di determinate categorie, sta nel fatto che l'orario di lavoro non è quasi mai rispettato.
Per esempio, e parlo per esperienza personale, a chi svolge la mansione di "custode di stabile"solo per il fatto che, nella maggior parte dei casi, abita nello stesso luogo dove lavora viene "velatamente" imposto che la disponibilità sia valida 24 ore su 24: spesso durante la pausa pranzo capita di dover ritirare pacchi consegnati da corrieri oppure, meno spesso ma comunque da non sottovalutare, capita che la sera dopo cena qualche inquilino abbia scordato le chiavi di casa, e altre "cosucce" del genere. "Cosucce", fino ad un certo punto dato che non se tiene conto nella retribuzione.
Oppure, un altro esempio può essere quello riferito alle "donne di servizio", le colf, le quali, nella stragrande maggioranza dei casi, vengono "affittate" in nero per poche ore alla settimana e magari si trovano costrette a lavorare a un tenore di cottimo per svolgere tutte le "faccende" entro l'orario stabilito.
Oltre che per la necessità di esternare una situazione di disagio personale, ho voluto parlare di tutto ciò perché troppo spesso ci si dimentica che nella categoria generica dei lavoratori rientrano molte sottocategorie a cui non si fa quasi mai riferimento.
Si sente spesso parlare di "contratti collettivi nazionali", di "lavoratori della pubblica amministrazione", di "metalmeccanici", di "dipendenti della scuola", eccetera, ma quando si parla di tutti gli altri ci si riferisce ad una generale categoria di "lavoratori".
Questi non partecipano a scioperi e manifestazioni per diversi motivi, tra cui il fatto che non si sentono realmente tutelati dai sindacati, che non si sentono realmente rappresentati nelle proteste e perché rischiano realmente il licenziamento nel caso di sciopero.
Ma sono anch'essi lavoratori, nè più nè meno di tutti gli altri.
Anche questa è, a mio parere, una ragione per sottolineare l'esigenza di formazione di un vero sindacato di classe.
Un organismo, insomma, che non distingua le categorie privilegiandone alcune nelle lotte.
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25 ottobre 2010

"Da Vendola a Landini, il percorso della nuova Linke" (a cura di Lurtz)

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Articolo condiviso da Aginform

- E' il caso di dire 'ben scavato vecchia talpa'?
I fatti sembrano andare in questa direzione. Ci troviamo di fronte, cioè, a una seconda fase della lotta politica in Italia dopo la battaglia, non ancora esaurita, sul fronte giustizialista.
Ora all'orizzonte compare una nuova ipotesi di formazione politica che ingloba una vera tendenza riformista, che nulla ha a che vedere col riformismo di cui si parla negli ambienti centristi di destra e di sinistra. Il nuovo riformismo ci racconta, come direbbe Vendola, di un'esigenza di massa al cambiamento che non trova rappresentanza nella società italiana e che dopo aver vissuto all'ombra della vecchia nomenclatura politica esce allo scoperto. Come e in quale forma? Diciamo che il punto di discrimine è stata la manifestazione FIOM del 16 ottobre.
Attorno a quella scadenza si sono andate concentrando le forze non omologate nel fronte politico bipolare, ma questa volta al contrario del passato non si è trattato del solito corteo movimentista, bensì di una manifestazione ad egemonia confederale CGIL.

Questo fatto ha catalizzato l’interesse di altre forze in cerca di nuove formule politiche, di cui sono state espressione Nichi Vendola al congresso di Sinistra Ecologia e Libertà e Flores D’Arcais con un articolo sul quotidiano il Fatto [ La piazza FIOM: cosa viene dopo]. In sostanza, anche se con referenti organizzativi diversi, c’è convergenza su un punto centrale: in Italia non si può più andare avanti con una situazione che nega rappresentanza a diritti fondamentali come una giustizia uguale per tutti, la difesa dei lavoratori e delle classi meno abbienti, una politica di pace e di nuova collaborazione internazionale.
Cosa nascerà da questa convergenza? E’ presto dirlo, ma una cosa è certa: la vecchia rappresentanza della sinistra detenuta dal PD e dalle sue appendici ‘radicali’sta andando in frantumi e, mentre le forze liberali cercano il riscatto da Berlusconi, un altro processo è in atto per definire una dialettica politica diversa.
Le anime belle che si aspettano che miracolosamente il coniglio esca dal cilindro dovranno, però, fare i conti con incognite non di poco conto. Chi manifesterà veramente autonomia dal quadro bipolare che ruota attorno agli interessi dell’Europa capitalistica e dal militarismo NATO e che prezzo i protagonisti dovranno pagare per uscire da siffatto schema?
Una cosa però è certa, nonostante quello che appare un grande sfascio, due cose positive sono emerse: la grande battaglia contro la criminalità politica dilagante e la fine dell’egemonia vergognosa del PD e delle sue appendici in cerca di un posticino al sole dove meditare sulle possibili rifondazioni.
Per ora godiamoci lo spettacolo, in attesa che le cose si chiariscano meglio e che si comprenda su quali dati oggettivi si potrà fare leva per cambiare veramente qualcosa.

Erregi
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17 ottobre 2010

"Le nefaste conseguenze dell'attuazione del federalismo fiscale".

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Articolo condiviso da "L'ernesto"

di Domenico Moro

«La questione fiscale è centrale negli Stati moderni, sia per la gestione del debito pubblico che per la costruzione del consenso. Lo sanno bene Lega e Forza Italia (ora PdL), che della riduzione della pressione fiscale hanno fatto uno slogan: “non metteremo le mani nelle tasche degli italiani”. Il centro-sinistra, e la sinistra soprattutto, hanno pagato duramente la sottovalutazione della questione fiscale alle elezioni del 2006 e del 2008. Nel 2006 l’ultimo confronto Tv tra Prodi e Berlusconi, in cui il primo fece capire che avrebbe aumentato le tasse ed il secondo dichiarò che avrebbe eliminato la tassa sulla prima casa, contribuì a ridurre il margine di vantaggio del centro-sinistra ad una inezia e a generare una vittoria monca. I soli 24mila voti di scarto a favore del Centro-sinistra determinarono una maggioranza esigua che favorì la rapida fine della legislatura. D’altro canto, anche l’aumento dell’Irpef sui redditi dei lavoratori da parte del governo Prodi ebbe qualche responsabilità, insieme ad altri fattori (legge elettorale, mancato ritiro della Legge 30, Afghanistan, ecc.), sul tracollo della sinistra alle elezioni del 2008. Tuttavia, non è vero che la destra diminuisca le tasse, è vero anzi il contrario. Durante il precedente governo Berlusconi si registrò un aumento delle tasse indirette, quelle sui consumi.



Queste appaiono più “neutre” e sono meno evidenti agli occhi di chi le subisce rispetto alla tassazione diretta, sui redditi. E, soprattutto, pesano ugualmente su tutti, su Montezemolo e su Cipputi, che, quando comprano un prodotto o un servizio, pagano la stessa tassa (l’Iva), pur avendo redditi, diciamo così, diversi. Il risultato è una tassazione fortemente ingiusta dal punto di vista sociale e anticostituzionale. Infatti, la Costituzione all’articolo 53 dice che le tasse devono essere progressive, cioè devono aumentare all’aumentare del reddito. Oggi, con il decreto attuativo sul federalismo fiscale approvato dal governo assistiamo al “capolavoro” della destra italiana che coglie tre e non i due classici “piccioni con una fava”. Vediamo quali sono: 
- Aumento delle tasse. Il governo prevede di aumentare ancora la tassazione diretta con l’innalzamento del tetto dell’addizionale regionale Irpef dall’1,4% al 3%; 
- Redistribuzione del reddito nazionale a favore delle imprese. Mentre la tassa sui redditi da lavoro dipendente, l’Irpef, aumenterà, è prevista la riduzione e finanche l’azzeramento dell’Irap, la “tassa” pagata dalle aziende per la salute di chi lavora. È da notare, inoltre, che l’Irap non è propriamente definibile una tassa. Rappresenta il vecchio contributo alla assistenza sanitaria dei lavoratori che il primo governo Prodi nel 1997 incluse, insieme ad altre voci, nell’Irap. Si tratta in pratica di una parte del salario, quella indiretta, pagata in servizi pubblici. 
- Riduzione della progressività della tassazione. Il governo ha aumentato la tassazione indiretta, introducendo nuovi balzelli. Particolarmente iniquo quello sul passaggio sulle tangenziali e i raccordi urbani, che, sospeso dal Tar, è stato nuovamente decretato dal governo. Inoltre e soprattutto, col federalismo fiscale aumenterà il peso dell’Iva nel finanziamento delle regioni. 
Quali saranno le conseguenze sociali del federalismo fiscale? Saranno devastanti da almeno tre punti di vista: 
- Aumenterà il gap tra salari e profitti
- Aumenterà il gap tra regioni del Sud e del Nord. Non solo in termini di servizi e di infrastrutture. C’è un altro aspetto che non è stato considerato: la riduzione e ancor di più l’abolizione dell’Irap faciliteranno l’attrazione degli investimenti. E, dal momento che solo le regioni con bilanci in attivo, cioè quelle più ricche del Nord, potranno farlo, il Sud subirà un’ulteriore riduzione dell’afflusso dei capitali e una accentuazione della fuga già consistente della produzione verso il Nord. Il Pil del Mezzogiorno, sceso nel 2009 al livello minimo dall’Unità d’Italia (23,2% sul totale nazionale), rischia un ulteriore tracollo. 
- La sanità pubblica sarà gravemente ridotta. Con il federalismo si potrà ridurre l’Irap solo se i conti sono in regole e/o in presenza di tagli massicci alla spesa, ovvero con la riduzione del servizio. Già oggi si stanno chiudendo ospedali e reparti, con il federalismo fiscale ci sarà una vera ecatombe. Interi territori di provincia saranno costretti a fare capo alle strutture sopravvissute lontane decine di chilometri, con tutto ciò che ne consegue. Molti lavoratori rimarranno senza assistenza, con il non trascurabile effetto che la sanità privata avrà più spazi. 
La destra ha messo le mani nelle tasche degli italiani. Va smascherata, anche se si arrampica sugli specchi per negarlo, parlando di macchinose “clausole di invarianza fiscale” e di fantomatiche “conferenze di coordinamento governo-regioni”. Ci sarà una spinta a diminuire le tasse alle imprese, che è il vero obiettivo del federalismo, ed è per questa ragione appoggiato da Confindustria. Di conseguenza, si compenserà il taglio alle aziende con la riduzione dei servizi e/o con l’aumento delle tasse ai lavoratori. Inoltre, l’aumento della pressione fiscale sui lavoratori è tanto più intollerabile in quanto è sospinto dall’aumento del deficit e del debito pubblico, che in gran parte è causato dal sostegno ai profitti e alle rendite di imprese e banche. Il vero nodo della fiscalità italiana è la più alta evasione fiscale d’Europa, 100 miliardi di euro, ovvero il 7% del Pil, un dato superiore al deficit pubblico, che ammonta al 5,2%. Il governo Berlusconi-Lega è il meno adatto a combattere l’evasione: i maggiori responsabili dell’evasione sono gli industriali (32%), e l’incremento maggiore degli evasori nel 2010 si è registrato al Nord, in particolare nelle virtuose Lombardia (+10,1%) e Veneto (+9,2%), le regioni dove c’è la base elettorale di PdL e Lega. A sinistra, oltre ad aver sottovalutato la questione fiscale, ritenuta secondaria rispetto a quella salariale, si è finora affrontato il federalismo in modo poco deciso, pensando che fosse eminentemente questione di unità nazionale e non sociale e di classe. Si tratta di un errore, in primo luogo perché la questione fiscale rientra nella questione del salario complessivo, riguardando il salario indiretto. In secondo luogo, perché, con il permanere della crisi e la pressione dei mercati finanziari a ridurre deficit e debiti pubblici, la spinta ad aumentare le tasse sarà sempre più forte. Quindi, decidere chi e in che misura deve pagare le tasse sarà decisivo.»
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15 ottobre 2010

"Quali aspettative sulla manifestazione del 16 ottobre?"

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Articolo condiviso tramite "La Rete dei Comunisti"

«La manifestazione nazionale del 16 ottobre convocata dalla Fiom-Cgil a difesa dei diritti costituzionali dei lavoratori, ha creato molte aspettative. Il problema è verificare se, quante e quali di esse saranno attese.
Sul piano politico i contenuti della manifestazione colgono un problema reale. L’attacco padronale ai diritti dei lavoratori, punta non solo a imporre il comando totale del capitale sul lavoro, ma destruttura in profondità quella parte dell’impianto costituzionale che almeno formalmente ha riconosciuto al lavoro e ai lavoratori un ruolo fondativo della democrazia e della repubblica.
Il mantenimento di questo ruolo fondativo ha reso possibile che la Fiat venisse ancora oggi condannata in due tribunali (Potenza e Torino) per i licenziamenti ingiustificati dei delegati sindacali. Qualora passasse il modello “costituzionale” di Marchionne e della Fiat, uno scenario del genere diventerebbe raro o impensabile.
Ma sul piano politico la manifestazione del 16 ottobre pone anche altri problemi, stavolta di natura diversa. In questa occasione la Fiom-Cgil sta svolgendo un ruolo di supplenza politica verso le difficoltà e il logoramento dei partiti della sinistra, andando ad assumere un ruolo che non è proprio delle organizzazioni sindacali. Questo non rappresenta una novità. Cofferati e la Cgil nel 2002 svolsero lo stesso ruolo. Gli esiti nefasti però li abbiamo verificati tutti su entrambi i soggetti.
La segreteria della Cgil, spinge infatti affinché la manifestazione del 16 ottobre abbia solo “un carattere sindacale” e non assuma su di sé aspettative generali, perché sul piano politico esiste sia il problema delle relazioni tra il PD con i sindacati di regime come Cisl e Uil, sia l’ambizione a far rientrare al più presto la Cgil dentro i tavoli del patto sociale neocorporativo con Confindustria e governo, agevolando l’interlocuzione con la nascita di un polo moderato in funzione antiberlusconiana. In questo senso la Fiom-Cgil (e soprattutto il sindacalismo di base anticoncertativo) vanno normalizzati con ogni mezzo necessario.
E’ su questa strettoia che lo spazio per la Fiom-Cgil diventa irto di insidie e contraddizioni.


Da un lato ci sono le aspettative di migliaia di lavoratori, delegati, attivisti sociali che in qualche modo intendono tenere aperto il conflitto sociale tra capitale e lavoro e rifiutano il patto sociale.
Dall’altra ci sono le compatibilità interne alla Cgil che non ammettono scostamenti e tendono a isolare il sindacato dei metalmeccanici anche dentro la Cgil stessa.
Prima il referendum su Pomigliano poi le polemiche sulle contestazioni alla Cisl, hanno visto un crescendo di minacce, sanzioni, richieste di dissociazione esplicitate in ripetute interviste e dichiarazioni dall’attuale segretario della Cgil Epifani.
E qui si apre l’ultima contraddizione. La Cgil ha imposto alla Fiom-Cgil che al comizio finale parli Epifani, il quale in questi mesi si è sistematicamente opposto alla Fiom.
Si palesa così un duplice rischio:
a) che Epifani venga sonoramente contestato alla manifestazione di una importante categoria della sua Cgil. Tale scenario vedrebbe una resa dei conti feroce dentro la Cgil contro la Fiom (vedi l’intervista di Epifani al Corriere della Sera di mercoledì)
b) Se Epifani non venisse contestato in piazza ma legittimato e riconosciuto come leadership dopo aver agito sistematicamente contro le decisioni della Fiom-Cgil, sarebbe una nuova vittoria dell’ipotesi concertativa e neocorporativa. Ogni aspettativa dei lavoratori, dei delegati o dei militanti della sinistra sull’autonomia della Fiom alimentata in questi mesi, verrebbe nuovamente frustrata, sancendo la normalizzazione invocata dai sostenitori del patto sociale.
Ci sembra dunque che la manifestazione del 16 ottobre rischi così di diventare come quella del 20 ottobre del 2007 (quando la sinistra era nel governo Prodi), cioè una iniziativa nata e cresciuta con molte aspettative e rivelatasi troppo al di sotto delle stesse sul piano politico e soprattutto sul piano sindacale. Su questo piano infatti va evidenziato un'altro aspetto contraddittorio che non emerge mai.
Se la Fiom-Cgil può svolgere una funzione obiettiva sui problemi della categoria e sulla battaglia politica - al di là delle specifiche valutazioni ognuno può fare - diviene però inutilizzabile rispetto all'organizzazione generale delle altre categorie di lavoratori che di fatto vengono lasciate in mano alla Confederazione CGIL. Questo è un ruolo che non risponde per niente alle esigenze del movimento dei lavoratori, il quale ha bisogno di una reale ricomposizione confederale per sostenere la pesantissima lotta di classe "dall'alto" che viene fatta dal padronato e dal governo.
E’ troppo debole, anzi assente ancora oggi, una discussione sul dopo 16 ottobre, sul carattere e le possibilità del conflitto sociale nel nostro paese, sull’indipendenza politica e sindacale di una opzione di classe e sulle forme di organizzazione adeguate a rappresentare in questo scenario gli interessi dei lavoratori, dei disoccupati, dei settori popolari e dei ceti sociali proletarizzati dalla crisi economica.
Non guardiamo affatto con ostilità o sufficienza alla manifestazione del 16 ottobre e molti compagne e compagni sabato saranno in piazza, ma riteniamo sbagliato non indicare chiaramente le contraddizioni che continuano a ripetersi intorno a scandenze-evento come quella del prossimo sabato. I giorni successivi forniranno a tutti i dati obiettivi per discuterne con lealtà e franchezza.
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9 ottobre 2010

16 Ottobre. Perché sì ..... e perché no. (di Lurtz)

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Sono consapevole di apparire, alle volte, noioso perché ripeto le solite cose, ma ne sento la necessità. Sento la necessità di prendere posizione riguardo a determinati argomenti.
Da qualche tempo, che piaccia o meno, mi sono via via convinto circa la scarsissima utilità, al limite dell'inutilità, di alcuni eventi.
Sono sempre stato dell'idea che manifestazioni, scioperi e cortei, più che "diritti" democratici debbano essere interpretati come "doveri" della classe dei lavoratori all'interno di uno Stato borghese. Quello che invece mi ha convinto circa la loro scarsa utilità è il modo con cui si svolgono. Ed infatti non me ne sento coinvolto, se non molto distaccatamente.
Sia chiaro che questo non vuole essere un discorso da "duri e puri", da élitari, ma, al contrario, vuole invitare a rilevare proprio quella scadente utilità che rende velleitarie determinate iniziative.
Ma veniamo alla questione che nei prossimi giorni sarà principale, la manifestazione del 16 ottobre.
Sinceramente, ma senza volontà polemiche, non mi trovo affatto d'accordo con chi sostiene il "senza se e senza ma". Sarei piuttosto orientato verso il "d'accordo, ma con riserva".
Pur senza farsi prendere la mano da facili entusiasmi, ho l'impressione che in questo momento l'unico sindacato che offre una parvenza di volontà riguardo alla lotta di classe sia la Fiom, non tralasciando tuttavia la sua peculiarità di rappresentare "una" categoria di lavoratori. E tenendo presente il fatto che può rappresentare un utile "trampolino di lancio".

Quindi, se da un lato ritengo giusto sostenere questa iniziativa, perché comunque vi è la necessità di "dare" un segnale circa l'esistenza e la solidità di un controcanto, da un altro permangono perplessità. Perché non si può negare che esiste una certa modalità di rispetto del "centralismo democratico" nei confronti della Cgil e, nonostante io sia un sostenitore di questo metodo, sono dell'opinione che nel momento in cui si delinea, all'interno di un'organizzazione, una componente che in qualche modo, e pur con alcune perplessità più o meno condivisibili, rappresenta una sorta di "avanguardia", questa deve dimostrare fino in fondo il proprio carattere "rivoluzionario" e quindi operare anche scelte nette. E viste le recenti, e meno recenti, posizioni adottate dalla Confederazione non appare così difficile o fuori luogo.
Il secondo punto che mi permetto di contestare è la modalità di scelta dei tempi e dei luoghi.
Anche qui ritego si tratti di operare scelte drastiche.
Il bivio offre diverse alternative. La prima è quella del rispetto delle "regole democratiche", che in realtà democratiche non sono e impongono di scendere a patti occupando una posizione di netto sfavore. La seconda è quella del rifiuto delle regole di cui sopra, ma comporta l'accettazione di tutti i rischi del caso.
Infine, la terza è quella dell'imposizione di "nuove" regole di lotta. E, dato il periodo di particolare gravità, non penso si possa scandalizzarsi più di tanto al proposito.
In un momento in cui la "discussione" è stata violentemente soppiantata dall'imposizione, è folle pensare di rispondere ad uno schiaffo con un altro schiaffo? Oppure si vuole portare avanti pedissequamente l'assolutamente inattuale logica del "porgi l'altra guancia"?
Domandina sciocca: fa più "notizia" un corteo di cinque-seicentomila persone il sabato pomeriggio nella sola Capitale, oppure un corteo di dieci-quindici-ventimila persone al mercoledì mattina e contemporaneamente a Roma, Milano, Napoli, Torino, Firenze,Bari, Cagliari, Bologna, Palermo, Ancona, Perugia, Genova, Catanzaro, eccetera eccetera?
In conclusione, l'ultimo punto che ritengo dover contestare ossia il ruolo in tutto ciò della FdS.
E' troppo pretendere che determinate situazioni siano guidate da un partito comunista, in questo caso in sua vece dalla Federazione della Sinistra?
Il Segretario del Prc, Ferrero, in diverse occasioni ha lamentato l'assenza di visibilità a livello mediatico, e a tale proposito si potrebbe discutere. Ma, mi domando, invece di sottolineare la partecipazione a fianco del "popolo viola" (di cui, personalmente, credo si debba tutt'altro che vantarsi, da parte comunista) e comunque rivestire sempre un ruolo da "codisti", non sarebbe il caso di pensare seriamente a "prendere la guida" di queste (la manifestazione della Fiom, appunto) iniziative?
Per questa volta, oramai i giochi sono fatti. E non è mia volontà quella di fare del disfattismo.
Ma è arrivato il momento in cui i dirigenti della Federazione si pongano seriamente questioni del genere, perché a furia di seguire determinate logiche si finisce per abbandonare la propria natura e per lasciare sulla strada "cocci" che altri raccoglieranno e di cui se ne gioveranno.
Vogliamo ancora negare che molti lavoratori ed ex sostenitori della "Sinistra" siano stati attratti dalle sirene leghiste o di altra Destra estrema?
Si spera ancora che qualche Segretario, provinciale o nazionale che sia, provi a riflettere su certe questioni che, ed è un rischio concreto, se non svolte nella corretta maniera determineranno la svolta da progressiva a totale scomparsa dei comunisti nel nostro paese.
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8 ottobre 2010

Sul problema obesità.

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Uno dei problemi dell'Era Moderna, anzi forse il primario, è l'alimentazione.
Su "Avvenire" di domenica 3 ottobre, un articolo firmato da Chiara Zappa mette in luce una problematica direttamente connessa con l'alimentazione, ossia l'obesità.
Nonostante vengano prese in considerazione alcune cose, a mio parere di importanza basilare, a modo di vedere dell'articolista la questione è di natura culturale. Il fatto che secondo talune usanze "grasso è bello"; una visione determinata dal timore dell'aids, secondo cui per via del fatto che la malattia smagrisce si "gode" dell'essere grassi e perciò non contagiati; addirittura, e forse è questo il punto che più mi crea fastidio, una "scelta" data da nuove condizioni di benessere economico.


Insomma, a mio parere, e con fin troppa semplicità, si vede il dito ma si ignora completamente la Luna. Tralasciando per un momento una questione di fondamentale importanza, ovvero il fatto che il continente africano è ancora oggi, e credo che ciò sia innegabile, considerato una sorta di magazzino per le scorte di schiavi e di materie prime, se allarghiamo la visuale al resto del mondo ci accorgiamo che il luogo dove l'obesità è un grave problema sono gli Stati Uniti, seguiti a ruota dal Sud America e dall'Europa.
Il problema dell'obesità va di pari passo con lo sviluppo della povertà relativa tipica dell'esplosione del modo di produzione capitalistico. L'industrializzazione sfrenata, l'erosione delle campagne da parte dei centri urbani, la mancanza di tempo sufficiente alla propria vita personale, e, ovviamente, i salari insufficienti al mantenimento di sè stessi e della propria famiglia, determinano l'aumento della percentuale di persone che soffrono l'obesità e le patologie ad essa legate.
Nei paesi in via di sviluppo, ma anche in quelli ultra-sviluppati, si è passati dalla mancanza di cibo alla cattiva abitudine alimentare. Che però, contrariamente a quello che affermano alcuni, non è data dalle "usanze culturali". Ma bensì imposta dalle condizioni economiche.
Le materie prime, ovviamente nel nostro caso specifico gli alimenti di prima scelta, non sono concesse a tutti nella stessa maniera.
Per capirci meglio, faccio un esempio.
Quando vado dal salumiere e chiedo del prosciutto cotto, il bottegaio mi elenca una scelta di differenti qualità che richiedono prezzi diversi: la "prima" qualità ha un costo nettamente superiore al prodotto di scarsa qualità. E la differenza è data dai differenti ingredienti utilizzati per il suo confezionamento.
Pensare che, come nel nostro esempio, "il prosciutto, è prosciutto!" equivale ad ignorare un grave problema.
Allora, prima di fare discorsi che fanno fatica a reggersi in piedi, sarebbe utile scrollarsi di dosso determinati pregiudizi e guardare in faccia la realtà.
L'obesità non è che uno dei "frutti" di un problema ben più grave, ossia la tendenza alla povertà relativa generale.
Negli Usa, dove questo problema viene visto e affrontato con meno pregiudizi di ordine morale, non si cerca la soluzione, che comporterebbe un sostanzioso aumento dello "stato sociale", ma si è trovata un'escamotage per fare in modo che questi milioni di soggetti non trovino (o ne trovino meno) difficoltà nel rapportarsi alla comunità (perché non dimentichiamo che tra le patologie ad esse collegata ve ne sono di carattere psicologico). Ecco comparire quindi, carrelli da supermercato con seggiolino per facilitare la deambulazione, sedili per automobili e poltrone da cinema e da teatro appositi, eccetera eccetera.
Comodo, no?
Quasi ironicamente, si è trasferito un serio problema della popolazione in risorsa di genere economico.
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7 ottobre 2010

Ritorno al futuro...cosa ci ricorda tutto ciò?

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India» raccoglie una serie di corrispondenze scritte da Karl Marx direttamente in inglese da Londra tra il maggio 1853 e l'aprile 1859 e apparse sul quotidiano americano «New York Daily Tribune»"


"La rivolta indiana"
(Karl Marx; Londra, 4 settembre 1857. Uscito su "New York Daily Tribune" nr.5119, 16 settembre 1857)

«Le violenze commesse in India dai sepoys in rivolta sono veramente spaventose, orrende, indicibili, quali si pensa di poter vedere soltanto nelle guerre d'insurrezione, di nazionalità, di razze e soprattutto di religione; in una parola, come quelle che l'Inghilterra rispettabile soleva applaudire, quando erano perpetrate dai vandeani sui "bleus", dai guerriglieri spagnoli sui francesi miscredenti, dai serbi sui loro vicini tedeschi e ungheresi, dai croati sui ribelli viennesi, dalla Garde Mobile di Cavaignac o dai "décembristes" di Bonaparte sui figli e sulle figlie della Francia proletaria. Per quanto infame, la condotta dei sepoys non era che il riflesso, in forma concentrata, della condotta degli stessi inglesi in India, non solo durante il periodo della fondazione del loro impero orientale, ma anche durante l'ultimo decennio di una dominazione ormai consolidata.
Per caratterizzare questa dominazione, basti dire che la tortura rappresentava un'istituzione organica della loro politica finanziaria. C'è nella storia umana una sorta di nemesi; ed è una legge della nemesi storica che il suo strumento sia forgiato non da chi subisce il torto ma da colui stesso che lo compie.

Il primo colpo sferrato alla monarchia francese venne dalla nobiltà, non dai contadini. La rivolta indiana comincia non con i ryots, torturati, offesi, spogliati dai britannici, ma con i sepoys, che essi avevano vestiti, nutriti, coccolati, soddisfatti e favoriti. Per trovare un parallelo alle atrocità dei sepoys non serve, come fanno alcuni giornali londinesi, richiamarsi al medioevo, e neppure cercare al di là della storia dell'Inghilterra contemporanea. Basta studiare la prima guerra cinese, un evento, per così dire, di ieri. I soldati inglesi commisero allora degli orrori semplicemente per il gusto di commetterli, giacché non erano spinti nè da fanatismo religioso nè da un esasperato odio contro una razza arrogante e conquistatrice, nè erano provocati dall'ostinata resistenza di un eroico nemico.
Stupri, bambini impalati, interi villaggi messi a fuoco erano soltanto una forma mostruosa di svago, tutte cose riferite non dai mandarini ma dagli stessi ufficiali inglesi.
Anche nell'attuale catastrofe sarebbe un completo errore supporre che la crudeltà stia tutta dalla parte dei sepoys, e che la naturale gentilezza d'animo sia tutta da parte degli inglesi. Le lettere degli ufficiali britannici trasudano malignità.
Scrivendo da Peshawur un ufficiale descrive come il 10° cavalleria irregolare venne disarmato per aver trasgredito l'ordine di caricare il 55° fanteria indigena. Ed esulta perché quegli uomini erano stati non solo disarmati ma spogliati di vestiti e scarpe e, dopo avergli dato 12 pence a testa, fatti marciare fin sulla sponda dl fiume, e qui caricati su barche e spinti a valle dell'Indo, dove lo scrittore si rallegra al pensiero che tutti quanti senza eccezione sarebbero finti annegati nelle rapide. Un altro, in un'altra lettera, ci racconta che avendo alcuni abitanti di Peshawur fatto esplodere di notte piccole mine con polvere da sparo per festeggiare un matrimonio (un costume nazionale), la mattina dopo furono legati insieme e "ricevettero tante frustate che non se le dimenticheranno facilmente".
Arrivò da Pindee la notizia che tre capi indigeni stavano complottando. Sir John Lawrence rispose con un messaggio in cui si ordinava che una spia partecipasse alla riunione.
Dopo il rapporto della spia, Sir John mandò un secondo messaggio: "Impiccateli". E i capi furono impiccati.
Un funzionario dell'amministrazione civile scrive da Allahbad: "Abbiamo nelle mani i poteri di vita e di morte e vi assicuriamo che li useremo senza risparmio".
Un altro, dallo stesso posto: "Non passa giorno senza che ne appendiamo da dieci a quindici (non combattenti)".
Un ufficiale scrive esultando: "Holmes li impicca venti alla volta, come in blocco".
Un altro, alludendo all'impiccagione sommaria di parecchi nativi: "Allora sì che è cominciato lo spasso".
E un terzo: "Teniamo la corte marziale in sella e ogni negro che ci capita di vedere lo appendiamo o gli spariamo".
Da Benares ci informano che trenta samindari {Signori feudali che godono dei diritti di proprietari terrieri, NdR.} sono stati impiccati per il semplice sospetto di simpatizzare con i loro connazionali, e interi villaggi sono stati incendiati per la stessa accusa.
Un ufficiale la cui lettera è riprodotta in "The London Time" dice: "I soldati europei quando si trovano di fronte ai nativi diventano diavoli".
E non si deve dimenticare che, mentre delle crudeltà degli inglesi si parla come di atti di vigore marziale, e si raccontano semplicemente, con rapidità, senza soffermarsi su particolari disgustosi, le violenze dei nativi, certamente spaventose, vengono di proposito ulteriormente esagerate. Per esempio, da chi veniva il racconto circostanziato delle atrocità commesse a Delhi e a Meerut, apparso prima su "The Times", per poi fare il giro di tutta la stampa londinese? Da un parroco codardo residente a Bangalore, nel Mysore, più di mille miglia di distanza, in linea d'aria, dalla scena dell'azione. Il resoconto ufficiale trasmesso da Delhi dimostra che l'immaginazione di un parroco inglese può concepire orrori ben più grandi anche della fantasia sfrenata di un ribelle indù.
Per la sensibilità europea il taglio del naso, delle mammelle, ecc. in una parola le orribili mutilazioni praticate dai sepoys sono naturalmente più ripugnanti del lancio di proiettili roventi sulle casupole di Canton ordinato da un segretario della Peace Society di Manchester {John Bowring, NdR}, o del rogo degli arabi stipati in caverne per ordine di un maresciallo di Francia, o del gatto a sette code che scortica vivi i soldati britannici giudicati per direttissima da una corte marziale, o di qualsiasi altro filantropico strumento usato nelle colonie penali inglesi.
La crudeltà, come ogni altra cosa, ha le sue mode, che cambiano a seconda dei tempi e dei luoghi.
Cesare, il raffinato studioso, narra candidamente di aver ordinato che fosse tagliata la mano destra a molte migliaia di guerrieri galli. Napoleone si sarebbe vergognato di fare una cosa del genere.
Egli preferiva spedire i suoi reggimenti francesi, sospetti di repubblicanesimo, a Santo Domingo, a morire di peste e per mano dei negri.
Le infami mutilazioni praticate dai sepoys ricordano una delle tante in uso nel cristiano impero bizantino, o le pene previste dal codice penale di Carlo V, o le pene inglesi per i reati di alto tradimento così come ancora riferito dal giudice Blackstone.
Agli indù, esperti di torturare sè stessi, sembrano del tutto naturali queste torture inflitte ai nemici della loro razza e della loro fede, e tanto più devono sembrare tali agli inglesi, che, soltanto pochi anni fa, usavano ancora trarre profitti dalle cerimonie in onore di Jugannath, proteggendo e assistendo ai sanguinari riti di una religione crudele.
Le frenetiche urla del "dannato vecchio «Times»", come soleva chiamarlo Cobbett, il suo far la parte di quel personaggio violento di una delle opere di Mozart che si abbandona al canto più melodioso nella prospettiva prima di impiccare il suo nemico, poi di arrostirlo, poi di squartarlo, poi di infilzarlo e infine di scuoiarlo vivo; il suo far a pezzi e brandelli la passione della vendetta, tutto questo sembrerebbe soltanto stupido se dietro il pathos della tragedia non ci fossero ben percettibili i trucchi della commedia.
"The London Times" esagera la sua parte, e non per panico. Fornisce alla commedia un personaggio che persino Molière s'era lasciato sfuggire, il Tartufo della vendetta.
Quel che egli vuole è semplicemente giustificare gli stanziamenti pubblici e difendere il governo.
Poiché Delhi non è caduta, come le mura di Gerico, al primo soffio di vento, John Bull deve essere immerso fino alle orecchie in grida di vendetta sì da fargli dimenticare che il suo governo è il responsabile del disastro provocato e delle colossali dimensioni che ha finito per assumere»

(tratto da: "India", Karl Marx; Editori Riuniti, Roma, 1993)
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