"Non siamo pacifisti. Siamo avversari della guerra imperialista per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell'interesse del socialismo."
(Vladimir Ilič Ul'janov, Lenin, 1917)

29 ottobre 2015

"Verità", "bufale" e "complottismi". (di G. Di Meo)

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Ci sarebbe da riflettere, e molto, sulla divisione imposta dalla sinistra imperiale, secondo la quale tutte le voci ufficiali diffuse da USA e occidente corrisponderebbero a "verità" e ogni dubbio su di esse corrisponderebbe a "bufala" e a "complottismo". Speculare a essa, ovviamente, è la visione di una certa destra che affibbia l'etichetta di mondialisti, massoni, illuminati e sionisti a tutti coloro che non credono ai rettiliani. Sarebbe da discutere la posizione della sinistra imperiale secondo la quale chiunque metta in dubbio l'ideologia acritica e non dialettica del progresso, contestando l'assioma basato sulle equazioni "progresso uguale capitalismo uguale democrazia uguale occidentalismo (soprattutto statunitense)", è un reazionario e quindi di destra. Così come sarebbe da criticare la destra reazionaria che basa le sue visioni su un'ideologia acritica e non dialettica della "tradizione", dell'organicismo, della differenza (oggi "sposata" dalla sinistra!) e dell'"età dell'oro". Ci sarebbe da discutere, e molto, su metanarrazioni teleologiche, visioni lineari, circolari, a spirale, a spirale ondulata o casuali della storia. Ci sarebbe da dibattere, e molto, sulle "fini della storia" e sulle connessioni fra la metafisica dell'"origine" e la metafisica del "fine". Sarebbe da discutere l'ideologia di sinistra che vede il nazifascismo non come un "male enorme", ma come un "male assoluto", bagatellizzando così gli orrori dell'imperialismo occidentale. Così come sarebbe da contestare l'ideologia di destra che non solo vuole riabilitare il nazifascismo, ma addirittura lo vuole presentare come "ottimo modello" politico "socialista" e, al di là dei suoi orrori, senza peraltro neanche prendere definitivamente le distanze dal capitalismo, rimanendo ancorata a quel mercantilismo piccolo-borghese da cui è scaturito il capitalismo e le cui dinamiche non possono che riproporre sviluppi capitalistici (il che è ovvio, essendo il nazifascismo funzionale al capitalismo). Sarebbe da discutere l'ideologia della sinistra imperiale secondo cui chi pone in dubbio la dicotomia sinistra-destra sarebbe di destra. Così come sarebbe da contestare la visione di destra che pretende di parlare a nome di una visione comune interclassista e de-ideologizzata (quest'ultima è una pecca anche della sinistra). Sarebbe da porre in dubbio la visione (presente sia a sinistra sia a destra) della cattiva metafisica della crescita (basata sull'intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro, dell'incremento dei profitti e degli sprechi delle risorse di volta in volta disponibili), così come sarebbe da discutere la visione (presente sia a sinistra sia a destra) della maliziosa decrescita con cui si determina il peggioramento del tenore di vita delle masse lavoratrici, proletarie e popolari, la compressione del costo della forza-lavoro e il taglio dei servizi sociali (che sono in realtà salario sociale). Il discorso sarebbe lunghissimo. Detto questo, al momento mi accontento di osservare ciò: secondo me, dietro all'attuale questione degli alimenti, si celano due pericolose intenzioni. La prima è quella dell'attacco imperialista statunitense all'Europa (esplicitamente dichiarato dall'ambasciatore USA in Francia), volto a fare accettare all'UE i diktat sul TTIP e sugli OGM statunitensi. La seconda è quella volta a facilitare l'abbattimento del costo della forza-lavoro inducendo le masse lavoratrici, proletarie e popolari a sostentarsi ingurgitando i "papponi" made in USA (che determinano bassi costi di produzione e alti margini di profitto), così come già avviene oltreoceano.
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26 giugno 2014

Che fare? (una riflessione di Giuseppe Di Meo)

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{questo post è stato riveduto e ampliato}

Karl Marx vedeva nella rivoluzione lo strumento di passaggio transmodale dal capitalismo al comunismo. Ammise per prudenza possibilità riformiste solo per l'Inghilterra dell'epoca, senza esserne affatto convinto. Ebbe piuttosto perplessità sulla possibilità di uno sbocco tramite rivoluzioni di massa analizzando "le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850", sia in opere come quella omonima sia in opere come il "18 Brumaio di Luigi Bonaparte", a causa dello sviluppo tecnico che metteva a disposizione degli apparati statuali armi contro cui nulla si poteva. Friedrich Engels, rivoluzionario, negli ultimi anni della sua vita (fine ottocento) si rese conto che lo sviluppo tecnologico aveva raggiunto livelli tali da rendere impossibili rivoluzioni tradizionali. Sorse così la contraddizione, non voluta, fra la visione che individuava nella rivoluzione l'unico sbocco transmodale possibile e la visione che considerava il riformismo l'unico percorso praticabile (quest'ultimo "elemento" fu poi strumentalizzato dai riformisti delle socialdemocrazie secondinternazionaliste). Furono poi le situazioni reali di inizio novecento a far elaborare a Lenin il modo fattivo per uscire da tale dilemma, con le sue analisi sui nessi dialettici fra contraddizioni interimperialistiche e lotta di classe, fra guerre e rivoluzione, fra ricerca dell'"anello debole della catena imperialista da spezzare" e sbocco rivoluzionario. Bisogna sempre guardare ai rapporti di forza. Anche una tragica guerra mondiale può localmente non essere sufficiente. Basti pensare ai massacri subiti dagli eroici compagni comunisti greci, nel secondo dopoguerra, ad opera degli imperialisti anglo-statunitensi (dopo aver subito quelli nazifascisti). A maggior ragione certi discorsi rivoluzionari sono difficilmente proponibili, soprattutto nell'Occidente capitalista sviluppato e in periodo di pace, con gli apparati militari statuali integri e in piena efficienza ("en passant", quale follia sinistroide è stata la soppressione del servizio militare di leva, togliendo così il controllo democratico e popolare sulle armi. Marx ed Engels sarebbero inorriditi). Ebbe a mio avviso ragione Pietro Secchia (al di là delle banali semplificazioni del suo pensiero compiute dai suoi avversari in mala fede) quando avallò la "democrazia progressiva" come "svolta tattica" (e non strategica) a cui si era giocoforza obbligati. I miglioramenti nella qualità della vita dei lavoratori e delle masse popolari furono determinati dalla ripresa che ogni periodo post-bellico porta con sé; dai perduranti effetti del fordismo, delle soluzioni elaborate per uscire dalla crisi del '29 e del welfare state (che i capitalisti perseguivano per i loro esclusivi interessi, non per senso "democratico"); dalla contrapposizione del mondo in due blocchi (capitalista e socialista) in cui acquisiva maggior peso una forte lotta di classe nei paesi capitalisticamente più sviluppati. Con le crisi degli anni '70, in primo luogo petrolifere e inflazionistiche, entrò in crisi questo modello (e con esso quello keynesiano). Oggi le masse popolari sono sempre più povere, precarizzate, oppresse e sfruttate. Il capitalismo mostra in maniera crescente le proprie contraddizioni, non riuscendo più a mascherare la propria incapacità strutturale a porsi come modo di produzione in grado di generare sviluppo, sia in salsa liberista sia in salsa keynesiana, al di là di quello relativo frutto delle predonerie fra classi e fra nazioni e delle innovazioni tecnico-scientifiche (frenate proprio dal carattere "egoistico" del capitalismo). Il processo di deindustrializzazione, in cui l'aspetto dato dalle delocalizzazioni costituisce solo una faccia della medaglia, è in realtà figlio dello spostamento di ricchezze avvenuto a partire dagli anni '70 dal lavoro al capitale, nella controffensiva padronale che ha provocato la fine della "società della produzione e dei consumi di massa", attenuata solo negli anni '80 dalla decisa immissione delle donne nel mondo del lavoro, con il risultato di avere situazioni familiari, in una breve fase di passaggio, in cui due salari quasi pieni ne avevano sostituito uno pieno (ma aumentando l'esercito salariale di riserva, e stravolgendone le caratteristiche, il risultato ottenuto è che se in precedenza per ottenere i "mezzi di sussistenza per sé e la propria famiglia" occorreva un salario, ora se ne rendono necessari due, se non di più). La fine dell'epoca della produzione e dei consumi di massa ha generato anche una "maliziosa" visione decrescista, nelle due facce di sinistra e di destra, che se da un lato fa leva su questioni reali, come la tutela dell'ambiente, dall'altro è funzionale a far subire drastici peggioramenti delle qualità di vita alle masse popolari. E l'altra faccia della medaglia dello stesso processo, in solidarietà "antitetico-polare", è data dalla persistenza dell'incitamento al "produttivismo" neocorporativista sotto la minaccia della perdita di posti di lavoro, comunque precari, a causa della concorrenza e della "competitività". Il tutto con la globalizzazione, dietro cui si cela l'imperialismo statunitense ad aspirazione egemonica unipolare, che con queste parole d'ordine sta imponendo per i propri interessi la "libera" circolazione di capitali, mezzi di produzione e forza-lavoro nell'interesse dei grandi capitalisti, ponendo in crudele competizione i lavoratori che vedono generalmente peggiorare le proprie condizioni di vita e immiserendo masse popolari e nazioni soccombenti. Anche qui, la questione immigrazione con i due "volti" di sinistra e di destra (pauperizzazione precarizzante da libera circolazione e razzismo) è volutamente dicotomizzata su questioni funzionali agli interessi del capitalismo imperialista. Le ricette della Troika, composta da Commissione Europea, BCE e FMI prescrivono politiche sempre più antidemocratiche e antipopolari, imponendo anche lo smantellamento delle attività produttive dei paesi più deboli (con una UE che non si è di fatto svincolata nelle grandi questioni dalla linea imposta dall'imperialismo a stelle e strisce). Neanche il dato fuorviante del PIL riesce a dare segnali positivi di ripresa nel nostro paese, ove, quand'anche riuscisse un domani a essere positivo, risulterebbe essere solo il dato di una crescita relativa (più facilmente presente nei paesi poveri) di un paese impoverito a cui è stato smantellato il grande apparato produttivo. Certamente bisogna smetterla con il nostro autolesionismo che ci porta a sostenere le contraddizioni secondarie ignorando quelle principali, assumendo in questo modo posizioni controproducenti. Il capitalismo è in crisi e sta affamando masse popolari e nazioni deboli. Oltretutto la crisi strutturale di sistema del capitalismo può indurre, come al solito, a ricercare uno sbocco nella guerra. Libia, Siria, Ucraina. Le provocazioni dell'imperialismo statunitense contro Russia e Cina sono sempre più numerose e aggressive, soprattutto perché lo zio Sam sente la minaccia di una probabile perdita dell'egemonia mondiale. In Ucraina è in corso un genocidio perpetrato dai nazi-golpisti al servizio dell'imperialismo USA. Chi utilizza i golpisti e i nazisti in Ucraina, provocando massacri, è lo stesso che sta immiserendo la nostra società, provocando disoccupazioni di lunga durata, precarizzazioni, povertà, sfruttamento, oppressione. Sono sempre più numerosi coloro che non riescono ad arrivare alla terza settimana del mese, sono sempre più numerose le persone senza casa. Sono sempre più numerosi i suicidi! Il tutto con l'incitamento all'"ignoranza", affinché non si possa più comprendere la situazione in cui ci troviamo, inducendo a ritenere il capitalismo "eterno" e "naturale" e in particolare il capitalismo imperialista statunitense come portatore di "civiltà" e "progresso". Al di là della questione dei rapporti di forza (prioritaria!), due importanti fattori sono dati dall'egemonia culturale statunitense perpetrata tramite la cinematografia e la musica. Il grado di penetrazione in questi due settori è mostruoso! Oltretutto i film statunitensi che "ci entrano in casa" pongono protagonisti e buona parte degli attori comprimari come "nostri genitori", "nostri parenti", "nostri amici", presentando la società statunitense come civiltà "intrinsecamente" buona, tutt'al più attaccata da "poche mele marce" che detto paese riesce a controllare e debellare per il suo "innato" carattere positivo! Siamo comunisti. E antifascisti, antimperialisti, per la lotta, per il governo, per l'autonomia dei comunisti, per le alleanze quando possibile, contro il nichilismo, per l'internazionalismo, per l'attenzione alle questioni nazionali, ecc. Ma tutti questi aspetti non si pongono sempre privi di contraddizioni fra loro. Essere comunisti non vuol dire essere massimalisti. Né minimalisti. Lasciamo queste categorie ai pochi rimasti (invero) socialisti secondinternazionalisti. Un comunista sa essere moderato nella tattica, purché la strategia sia rivoluzionaria. Ma sa anche valutare, di volta in volta, l'importanza della lotta per gli obiettivi rivoluzionari, l'importanza di quelli intermedi, l'importanza del nesso fra strategia e tattica, Sa valutare le contraddizioni. Di volta in volta, può dare la priorità all'antimperialismo o all'antifascismo. Di volta in volta, può dare la priorità al parlamentarismo o alla lotta al nichilismo. Di volta in volta, può dare la priorità all'internazionalismo o all'attenzione per le questioni nazionali. Oggi l'Italia è un paese indipendente? Direi proprio di no! L'Italia è un paese imperialista? Potrebbe sembrare, in quanto paese capitalista occidentale, ma in realtà è al massimo un paese dall'imperialismo straccione che si accoda a quelli più potenti. Più verosimilmente l'Italia è un paese semicoloniale. La contraddizione "capitale-lavoro" non si "dà" sempre in maniera evidente. Essa si cela dietro l'attuale contraddizione principale "imperialismo USA-antimperialismo". Valuto di conseguenza chi maggiormente ostacola le volontà di Washington. Purtroppo oggi il mondo non è più diviso in due blocchi e quand'anche si riuscisse a mobilitare tutto il proletariato (alquanto utopistico), difficilmente riuscirebbe ad avere rapporti di forza favorevoli. Esso non avrebbe il potente sostegno del blocco socialista che a lungo ha indotto i capitalisti (fino alla fine degli anni '70 - inizio anni '80, con Gorbaciov che rese poi più agevole la controffensiva capitalista), minacciati sul fronte esterno e su quello interno, a non irritare troppo i lavoratori. Siamo ben lontani dalle grandi mobilitazioni di classe del passato e, purtroppo, dalle grandi sconfitte, e i lavoratori sono indotti allo sconforto e alla rassegnazione per la sterilità delle proprie lotte. Pensare a ipotesi "riformiste" oggi, con la globalizzazione, con la "libera" circolazione di capitali, di mezzi di produzione e di forza-lavoro, con le delocalizzazioni e con la spietata concorrenza fra lavoratori è utopistico. Il riformismo è oggi praticamente morto! Anche quello a difesa dell'esistente e perfino quello del "meno peggio"! Men che meno vi sono le condizioni per uno sbocco rivoluzionario. Dunque "che fare" ? Tra l'altro, citando questa domanda in modo virgolettato, intendo sottolineare l'importanza, ancora oggi, della forma-partito rispetto a tutte le strampalate astrusità antidemocratiche vertenti sulla retorica della "società civile". Basarsi esclusivamente sulla diretta e frontale contraddizione capitale-lavoro, puntando alle sole lotte proletarie o addirittura a prospettive rivoluzionarie proletarie "pure" (pur rimanendo il comunismo la nostra prospettiva strategica), è oggi utopistico e velleitario. Si ripresenta così la necessità di guardare alle grandi contraddizioni internazionali. Tanto più oggi, con il mondo minacciato dalla pretesa egemonica del capitalismo imperialista statunitense che aspira al dominio planetario unipolare, con il rischio di riuscire a "blindare" il capitalismo per chissà quanto tempo e a "soffocare" ogni contraddizione, impedendo così ai comunisti, ai lavoratori, alle masse popolari e ai popoli resistenti di inserirsi con le proprie lotte. Guardando nel frattempo, noi comunisti, al di là della propaganda totalitaria a noi ostile, innanzitutto all'unità dei comunisti e poi a una politica di alleanze, quando possibili, che vada dialetticamente al di là del recinto ideologico settario della sinistra, tanto più che essa, oggi e in Occidente, si rivela essere troppo spesso lo schieramento ideologicamente o addirittura fattivamente più allineato alle posizioni del capitalismo imperialista statunitense! Lenin invitava i comunisti a essere spregiudicati. I capitalisti hanno recepito la lezione leniniana. Noi no.
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25 giugno 2014

Che fare? Una riflessione (di Giuseppe Di Meo)

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Karl Marx vedeva nella rivoluzione lo strumento di passaggio transmodale. Ammise per prudenza possibilità riformiste solo per l'Inghilterra dell'epoca, senza esserne affatto convinto. Ebbe piuttosto perplessità sulla possibilità di uno sbocco rivoluzionario di massa analizzando "le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850", sia in opere come quella omonima sia in opere come il "18 Brumaio di Luigi Bonaparte", a causa dello sviluppo tecnico che metteva a disposizione degli apparati statuali armi contro cui nulla si poteva. Friedrich Engels, rivoluzionario, negli ultimi anni della sua vita (fine Ottocento) si rese conto che lo sviluppo tecnologico aveva raggiunto livelli tali da rendere impossibili rivoluzioni tradizionali. Sorse così la contraddizione, non voluta, fra la visione che individuava nella rivoluzione l'unico sbocco transmodale possibile e la visione che considerava il riformismo l'unico percorso praticabile (quest'ultimo "elemento" fu poi strumentalizzato dai riformisti delle socialdemocrazie secondinternazionaliste). Furono poi le situazioni reali di inizio novecento a far elaborare a Lenin il modo fattivo per uscire da tale dilemma, con le sue analisi sui nessi dialettici fra contraddizioni interimperialistiche e lotta di classe, fra guerre e rivoluzione, fra ricerca dell'"anello debole della catena imperialista da spezzare" e sbocco rivoluzionario. Bisogna sempre guardare ai rapporti di forza. Anche una tragica guerra mondiale può localmente non essere sufficiente. Basti pensare ai massacri subiti dagli eroici compagni comunisti greci, nel secondo dopoguerra, ad opera degli imperialisti anglo-statunitensi (dopo aver subito quelli nazifascisti). A maggior ragione certi discorsi rivoluzionari sono difficilmente proponibili, soprattutto nell'Occidente capitalista sviluppato e in periodo di pace, con gli apparati militari statuali integri e in piena efficienza ("en passant", quale follia sinistroide è stata la soppressione del servizio militare di leva, togliendo così il controllo democratico e popolare sulle armi. Marx ed Engels sarebbero inorriditi). Ebbe a mio avviso ragione Pietro Secchia (al di là delle banali semplificazioni del suo pensiero compiute dai suoi avversari in mala fede) quando avallò la "democrazia progressiva" come "svolta tattica" (e non strategica) a cui si era giocoforza obbligati. I miglioramenti nella qualità della vita dei lavoratori e delle masse popolari furono determinati dalla ripresa che ogni periodo post-bellico porta con sé; dai perduranti effetti del fordismo, delle soluzioni elaborate per uscire dalla crisi del '29 e del welfare state (che i capitalisti perseguivano per i loro esclusivi interessi, non per senso "democratico"); dalla contrapposizione del mondo in due blocchi (capitalista e socialista) in cui acquisiva maggior peso una forte lotta di classe nei paesi capitalisticamente più sviluppati. Con le crisi degli anni '70, in primo luogo petrolifere e inflazionistiche, entrò in crisi questo modello (e con esso quello keynesiano). Il processo di deindustrializzazione, in cui l'aspetto dato dalle delocalizzazioni costituisce solo una faccia della medaglia, è in realtà figlio dello spostamento di ricchezze avvenuto a partire dagli anni '70 dal lavoro al capitale, nella controffensiva padronale che ha provocato la fine della "società della produzione e dei consumi di massa", attenuata solo negli anni '80 dalla decisa immissione delle donne nel mondo del lavoro, con il risultato di avere situazioni familiari, in una breve fase di passaggio, in cui due salari quasi pieni ne avevano sostituito uno pieno (ma aumentando l'esercito salariale di riserva, e stravolgendone le caratteristiche, il risultato ottenuto è che se in precedenza per ottenere i "mezzi di sussistenza per sé e la propria famiglia" occorreva un salario, ora se ne rendono necessari due, se non di più). Oggi il mondo non è più diviso in due blocchi e quand'anche si riuscisse a mobilitare tutto il proletariato (alquanto utopistico), difficilmente riuscirebbe ad avere rapporti di forza favorevoli. Esso non avrebbe il potente sostegno del blocco socialista che a lungo ha indotto i capitalisti (fino alla fine degli anni '70 - inizio anni '80 e Gorbaciov rese poi più agevole la controffensiva capitalista), minacciati sul fronte esterno e su quello interno, a non irritare troppo i lavoratori. Siamo ben lontani dalle grandi mobilitazioni del passato e, purtroppo, dalle grandi sconfitte, e i lavoratori sono indotti allo sconforto e alla rassegnazione per la sterilità delle proprie lotte. Pensare a ipotesi "riformiste" oggi, con la globalizzazione, con la "libera" circolazione di capitali, di mezzi di produzione e di forza-lavoro, con le delocalizzazioni e con la spietata concorrenza fra lavoratori è utopistico. Il riformismo è oggi praticamente morto! Anche quello a difesa dell'esistente e perfino quello del "meno peggio"! Men che meno vi sono le condizioni per uno sbocco rivoluzionario. Dunque "che fare"? Basarsi esclusivamente sulla diretta e frontale contraddizione capitale-lavoro, puntando alle sole lotte proletarie o addirittura a prospettive rivoluzionarie proletarie "pure", è oggi utopistico e velleitario. Si ripresenta così la necessità di guardare alle grandi contraddizioni internazionali. Tanto più oggi, con il mondo minacciato dalla pretesa egemonica del capitalismo imperialista statunitense che aspira al dominio planetario unipolare, con il rischio di riuscire a "blindare" il capitalismo per chissà quale periodo storico e a "soffocare" ogni contraddizione, impedendo così ai comunisti, ai lavoratori, alle masse popolari e ai popoli resistenti di inserirsi con le proprie lotte. Guardando nel frattempo, noi comunisti, a una politica di alleanze, quando possibili, che vada dialetticamente al di là del recinto ideologico settario della sinistra, tanto più che essa, oggi e in Occidente, si rivela essere troppo spesso lo schieramento ideologicamente o addirittura fattivamente più allineato alle posizioni del capitalismo imperialista statunitense! Lenin invitava i comunisti a essere spregiudicati. I capitalisti hanno recepito la lezione leniniana. Noi no.
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29 settembre 2012

Sull'individualismo (di Giuseppe Di Meo)

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Un detto popolare russo, usato per frenare i comportamenti prevaricatori, recita: "Я, Я, Я... Я последняя буква алфавита.". "Я (che è anche il pronome personale "Io") è l'ultima lettera dell'alfabeto". Ottima visione! In contrasto con l'individualismo liberale che il cosiddetto "occidente" sta diffondendo per il mondo, ammorbandolo con la sua ideologia legittimatrice della sopraffazione. Checché ne dicano gli apologeti, la libertà individualistica e le volontà di potenza desideranti si incrociano con le altrui libertà. Non vi è un "confine" metafisicamente "naturale", "neutro", "equo", "egualitario" o "equidistante". Ritengo condivisibile la visione hegelo-marxiana che pone attenzione alla società composta da individui e agli individui collocati nella società. Non sono d'accordo con la visione liberale. Non a caso John Locke, il padre del liberalismo, era proprietario e commerciante di schiavi. Ritengo importanti le riflessioni marxiane sulla dipendenza personale nei modi di produzione pre-capitalistici, sull'indipendenza personale nel modo di produzione capitalistico (personale e non individuale perché il capitalismo non permette di spogliarsi dalla "charaktermaske" della "persona") e sull'indipendenza individuale nel comunismo. Altrettanto contestabile è, a mio avviso, l'ideologia della tolleranza (criticata anche da Marcuse, pur con tutti i dubbi sollevabili nei confronti di quest'ultimo) e delle iperstrombazzate visioni differenzialiste e pluraliste, utilizzate in senso repressivo e antidemocratico e atte a legittimare sfruttamento e inique disuguaglianze. Al di là delle retoriche del progresso e della tradizione, con le coppie "progredito"-"regredito" e "tradizionale"-"dissolutorio" (rispetto alle cui cattive metafisiche preferisco una visione dialettica); al di là delle interessanti riflessioni di Costanzo Preve e Diego Fusaro sulla linea filosofica Fichte-Hegel-Marx, anzi, sulla linea filosofica Spinoza-Vico-Fichte-Hegel-Marx; al di là delle posizioni di chi si ritrova maggiormente su posizioni "marxiste classiche" da teoria del riflesso o del rispecchiamento; al di là della distinzione fra l'idealismo berkeleyano e l'idealismo della filosofia classica tedesca; al di là dei dibattiti su "unità di essenza e coscienza", "unità di ontologia e assiologia", "struttura e sovrastruttura", costante basilarità storica dell'economia o basilarità dell'economia nella modernità capitalistica; al di là del dibattito materialismo dialettico "chiuso", materialismo dialettico "aperto", materialismo storico, idealismo della materialità; filosofia della prassi, scienza filosofica della totalità, ontologia dell'essere sociale, ontologia dell'uomo, materialismo aleatorio, ecc.; al di là delle discussioni suscitate dalle critiche postmoderniste, decostruzioniste, ermeneutiche e del pensiero debole su metanarrazioni, visioni teleologiche, crisi delle scienze e crisi in generale; al di là del confronto fra ontologi e gnoseologi; al di là delle riflessioni inerenti al soggetto transmodale, all'"esserci", alla questione filosofica del soggetto e dell'oggetto e al rapporto fra "Essere ed enti", ritengo degna di nota la seguente analisi di Boris Fedorovic Porsnev (il quale si avvale di molte citazioni di G. V. Plekhanov di cui non condivido le posizioni mensceviche, ma di cui riconosco le posizioni che in parte contribuirono alla formazione di Lenin e che offrirono comunque interessanti spunti di riflessione apprezzati in Unione Sovietica): "La Psicologia Sociale e la Storia". "Spontaneità e consapevolezza. (...) La sottovalutazione della psicologia porta a semplicizzare la dottrina sulla struttura e la sovrastruttura. E' impossibile dedurre in maniera convincente da una data situazione economica le tendenze ed i sistemi filosofici religiosi ed estetici che in quel momento regnano nelle menti. Questi tentativi hanno portato alcuni storici della cultura, quali Pereverzev e Frice, ad analogie semplicistiche e non mediate, quali ad esempio lo spiegare lo stile della chiesa di San Basilio a Mosca con la varietà e l'abbondanza delle merci che venivano vendute sulla Piazza Rossa. Ad una tale rappresentazione semplicistica, una specie di riflessione speculare della base nella sovrastruttura, i pensatori marxisti più attenti hanno sempre contrapposto l'idea che i rapporti socio-economici determinino in linea primaria non l'ideologia ma le stratificazioni più profonde ed asistematiche della coscienza sociale. G. V. Plekhanov sviluppò la teoria secondo la quale l'anello di congiunzione tra lo sviluppo economico e la storia della cultura in senso lato è rappresentato dai mutamenti che intervengono nella psicologia degli uomini e che sono condizionati dallo sviluppo sociale ed economico. Secondo coloro che condividono questa opinione le idee, la cultura sono un coagulo di psicologia sociale. Nei "Saggi sulla storia del materialismo" G. V. Plechanov suddivide tutta la struttura sociale della comunità in cinque elementi interdipendenti: «Il dato livello di sviluppo delle forze produttive; le interrelazioni tra gli uomini nel processo di produzione sociale definito da quel livello di sviluppo; la forma di società che riflette queste interrelazioni tra gli uomini; un determinato stato d'animo e di costume corrispondente a tale forma di società; la religione, la filosofia, la letteratura, l'arte corrispondenti alle capacità, agli orientamenti del gusto ed alle tendenze generati da questa situazione.» (G. V. Plekhanov "Izbrannyje filosofskije proizvedenija"). G. V. Plekhanov insiste nell'affermare che senza questo anello chiamato «stato d'animo e di costume» e che in altre occasioni egli definisce «disposizione predominante dei sensi e degli intelletti», più in generale definito psicologia sociale, non è possibile compiere alcun passo avanti nello studio della storia, della letteratura, dell'arte, della filosofia, ecc. E aggiunge: «Per comprendere la storia del pensiero scientifico o la storia dell'arte in un dato paese non basta conoscere la sua economia. E' necessario saper passare dall'economia alla psicologia sociale. Senza un attento esame e senza aver compreso la psicologia sociale infatti è impossibile una spiegazione materialistica della storia delle ideologie.» (G. V. Plekhanov, op. cit.). In un altro passo Plekhanov formula tale pensiero ancor più sinteticamente: " Tutte le ideologie hanno un'unica radice comune: la psicologia di quella data epoca.» (Ibidem).". "Da «Io e Tu» a «Noi e Loro». Abbandoniamo per un momento la psicologia e rivolgiamoci alla filosofia. Una delle idee più feconde avanzate da Ludwig Feuerbach in contrapposizione alla filosofia idealistica classica tedesca consistette nella proposta di rifiutare la precedente categoria «io» quale soggetto della conoscenza e sostituirla con la categoria «io e tu». Plekhanov esponeva il pensiero di Feuerbach nel modo seguente: «L'Io reale è soltanto quell'io al quale si contrappone un tu e che a sua volta diventa tu cioè oggetto di un altro io. Per sé, l'io è soggetto, per gli altri è oggetto.» (G. V. Plekhanov, "Ot idealizma k materialismu" - "Dall'idealismo al materialismo"). In altri termini Feuerbach riteneva anormale prendere in considerazione la coscienza indipendentemente dai rapporti tra gli uomini. Non esiste alcun «io», soggetto della conoscenza, prima del rapporto tra due persone. Ciascuno dei due diviene soggetto soltanto in questo reciproco rapporto. Feuerbach pensava possibile il materialismo filosofico soltanto ove si operasse non con un unico «soggetto» contrapposto all'«oggetto» (il mondo materiale), non con l'«io», con le proprie sensazioni e con gli altri attributi, ma sempre con due «soggetti» con i loro reciproci rapporti. Feuerbach spiegava questo concetto riportando l'esempio della morale: è chiaro che non si può parlare di morale che riferendoci a rapporti tra uomo e uomo, tra una persona ed un'altra, tra «io» e «tu». «Io sono io solo grazie a te e con te. Io ho coscienza di me soltanto perché tu ti contrapponi alla mia coscienza come un io visibile e tangibile, come un altro uomo.» (Ibidem). Sarebbe difficile sopravvalutare l'influenza di questo concetto di Feuerbach sull'ulteriore destino della filosofia. Per il pensiero più avanzato cessava così di esistere l'astratto ed isolato individuo-soggetto entrato nel cammino della filosofia con Kant e fino a Stirner. Marx nel Capitale esprime il suo concetto storico di uomo nel modo seguente: «Poiché egli nasce senza uno specchio nelle mani e non è un filosofo fichtiano, 'io sono io', l'uomo all'inizio si guarda, come in uno specchio, in un altro uomo. Soltanto riferendosi all'uomo Paolo come ad un suo simile, l'uomo Pietro si riferisce a sé stesso come ad un uomo.» (K. Marx - F. Engels, Opere Complete - in lingua russa). Il marxismo è andato molto più in là della supposizione di Feuerbach riguardo all'«io e tu». Perché soltanto due persone? Naturalmente il passaggio dall'«unico» alla coppia spalanca la porta su un mondo di nuovi concetti dove il rapporto tra gli uomini è primario e più importante dell'uomo stesso, che è un prodotto di questi rapporti. Però da ciò deriva che anche la coppia è una astrazione. Robinson e Venerdì, Pietro e Paolo non costituiscono ancora la società. Allo stesso modo nella produzione mercantile sviluppata ciascuna singola merce non viene in effetti paragonata con un'unica altra merce, sia pure quest'ultima l'oro, ma, con la mediazione di quest'ultimo, con tutto l'infinito mare di merci che vengono trattate in un dato momento dal mercato. Perciò Paolo ha coscienza della propria natura per mezzo di Pietro soltanto grazie al fatto che alle spalle di Pietro c'è la società, un enorme numero di persone legate in un tutto unico da un complesso sistema di rapporti. Marx ed Engels distinsero questi rapporti in principali e derivati e si proposero quale compito primario lo studio dei rapporti principali, quelli economici, che costituiscono la base di tutta la struttura sociale. Così al posto di una stella doppia si dispiegò un immenso cielo stellato. «Io e tu» cessò di essere la cellula umana elementare; apparvero sulla scena anche «noi», «voi» e «loro».". Come evidenziato nella presentazione al libro di Jan Rehmann (in Italia curato da Stefano Azzarà) "I Nietzscheani di Sinistra: Deleuze, Foucault, e il postmodernismo: una decostruzione": "E' possibile ricostruire una teoria filosofica e politica di sinistra partendo da Nietzsche? Da più di trent’anni, la parte che si vuole più “raffinata” della sinistra annuncia il superamento della metafisica, la fine delle grandi narrazioni, la morte della filosofia della storia. Un lungo viaggio iniziato tentando di fondare una critica del “socialismo reale” e delle sue meste proiezioni politiche in occidente. Proseguito nel tentativo di coniugare la lettura “postmoderna” con l’esigenza di affermazione di nuove figure sociali. Per ritrovarsi infine impegnata a celebrare le “magnifiche sorti e progressive” dell’Individuo proprio quando questo viene schiacciato ovunque sotto il peso di una precarietà (lavorativa, contrattuale, esistenziale, culturale) che ne distrugge il futuro già nel presente. Una occasionale rilettura di alcune opere di Friedrich Nietzsche ha propiziato tale operazione culturale: un rovesciamento quasi perfetto. Al filosofo tedesco e alla sua lettura della crisi della modernità si richiamano Gilles Deleuze, Michel Foucault e molti altri autori, grazie alla scoperta del concetto di “differenza” e dell’intrinseco pluralismo che esso implicherebbe. In questo libro, muovendo dalla lezione dei francofortesi (non risparmiando critiche neppure a loro), di Gramsci e Bloch, Jan Rehmann discute l’ambiguità di queste nozioni e mostra tutta l’arbitrarietà della lettura postmodernista di Nietzsche. Ed ecco che nelle mani dei “nietzscheani di sinistra” il pathos della distanza che separa gli aristocratici fuorusciti dal gregge degli schiavi si tramuta nel concetto di differenza in quanto tale; e la volontà di potenza viene ingentilita fino a sembrare metafora di una concezione cooperativa del potere. La religione di Zarathustra viene così riproposta come retroterra di “nuovi possibili percorsi individuali” di liberazione per i “nomadi” dei nostri giorni. Rehmann mostra come questi discorsi siano ben poco fondati in una lettura rigorosa dei testi nietzscheani e soprattutto, lungi dal costituire il presupposto per un rinnovamento della critica del dominio e della società capitalistica, siano del tutto solidali con l’offensiva ideologica neoliberale e le sue concrete pratiche di sottomissione politica e sociale.".
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7 settembre 2012

«L'assoluto tecnico come "cattiva infinità"»

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«Quanto detto vale evidentemente solo per quello stadio in cui la tecnica, per effetto della sua espansione quantitativa, si rende disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine, dispiegando una potenza non esattamente determinabile che rifiuta ogni fissazione ai risultati che con essa si possono raggiungere. Ciò differenzia qualitativamente la tecnica contemporanea dalla tecnica antica che non era circondata dall'alone dell'infinita possibilità, perché già a priori era destinata a un fine ben determinato che, penetrandola, caratterizzandola e dirigendola, la conteneva nel ruolo di puro mezzo che riceveva il suo significato solo dal fine in vista del quale era stata ideato. Quindi erano proprio le scarse risorse di cui disponeva la tecnica antica ciò che consentiva di mantenere quella prospettiva finalistica che la tecnica contemporanea invece abolisce.Nel mondo antico, infatti, ci si prefiggeva un fine a partire dal quale si sceglievano i mezzi, e se la via dei mezzi era già prescritta dalla natura delle cose, l'elezione dei fini era, compatibilmente con i vincoli fissati dalla natura, a discrezione dell'uomo. Oggi invece che l'attenzione viene spostata sulla preparazione dei mezzi, dalla cui maggior disponibilità dipende la realizzazione dei fini, i fini non sono più una scelta discrezionale della volontà a partire dai quali si va alla ricerca dei mezzi, ma piuttosto essi sono il prodotto meccanicistico dell'estensione dei mezzi che generano la disponibilità dei fini.
Senza questo spostamento dell'attenzione dal fine al mezzo, l'umanità non avrebbe esteso la sua ricerca alla disponibilità dei mezzi, che è possibile solo là dove i mezzi sono eletti come fine della ricerca. Questa diversa distribuzione dell'accento psicologico dal fine al mezzo, per quanto irrazionale sia dal punto di vista della logica classica, è stato il volano del progresso al di là dei fini che l'umanità si era originariamente preposta.Un esempio di questo capovolgimento del mezzo in fine lo si ha nella ricerca pura, la quale non ha in vista tanto dei fini da realizzare, quanto un ampliamento infinito dei mezzi da cui i fini scaturiscono in modo meccanicistico. Ciò significa che l'uomo non sceglie più il fine in vista del quale operare, ma questo fine gli viene offerto come risultato della tecnica, se la sua attenzione si sarà rivolta per intero e avrà scelto comne fine la maggior costruzione possibile di mezzi. Questo spostamento dell'intenzione, un tempo rivolta ai fini, all'attenzione oggi rivolta ai mezzi, dalla cui disponibilità dipende la realizzazione dei fini, fa della tecnica, in quanto aparato di mezzi, un valore assoluto di fronte a cui la coscienza del fine si arresta in modo definitivo. Come ciò a cui le cose oppongono una sempre minor resistenza, la tecnoica, infatti, come mezzo assoluto, diventa per l'uomo, anche dal punto di vista psicologico, il fine assoluto, per cui quelli che erano i grandi principi della vita pratica in qualche modo si irrigidiscono e trovano il loro arresto se non addirittura la loro insignificanza.
Quando infatti il mezzo diventa fine, nella catena infinita della conquista dei mezzi, la vita umana vive i suoi momenti come se ciascuno fosse un fine ultimo, come se essa si fosse organizzata proprio per giungere fino a lì, e contemporaneamente come se nessuno di questi momenti raggiunti fosse, come in effetti non è, lo stadio definitivo, ma solo il punto di passaggio e il mezzo per stadi sempre più elevati. Questa condizione, apparentemente contradittoria, per cui ogni momento della vita è a un tempo fine da raggiungere e insieme punto di passaggio da oltrepassare, oltre ad esprimere quella "cattiva infinità" denunciata da Hegel ["Qualcosa diventa altro, ma l'altro è esso stesso un qualcosa, e quindi diventa un altro, e così all'infinito. Questa infinità è la cattiva infinità, ossia l'infinità negativa, non essendo che la negazione del finito il quale però torna a nascere di nuovo e quindi non è superato; - detto altrimenti, questa infinità esprime semplicemente il dover essere del superamento del finito. Il progresso all'infinito si limita ad esprimere la contraddizione contenuta nel finito; ossia il fatto che il finito è tanto qualcosa, quanto il suo altro, ed è l'incessante prosecuzione dell'avvicendarsi di queste determinazioni che provocano reciprocamente l'uno l'avvento dell'altra", G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche], toglie alla vita il suo senso e obbliga l'anima a trovare appagamento in quela formazione dello spirito: la tecnica, che, fra tutte, è la più esteriore alla natura, alla qualità e all'intensità dell'anima.
Si tratta a questo punto di cogliere e di evidenziare le trasformazioni antropologiche conseguenti a questa esteriorizzazione dell'anima, al cadenzarsi della sua interiorità di quella "cattiva infinità" che la tecnica, divenuta senso della terra, esprime come definitiva abolizione di ogni fine uiltimo. Ma prima occorre riconoscere i segni della tecnica rntracciabili nella disposizione che essa da del mondo, nella riduzione della verità a efficacia, nella riconduzione della ragione all'ordine strumentale, nelle sorti via via assegnate al mondo della vita, fino ai processi inavvertiti, ma inevitabili, di progressiva reificazione dell'uomo.»
 (Psiche e techne, U.Galimberti)
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«Modernità e post-human»

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«[...] la contrapposizione fra modernità e postmodernità non regge. E', infatti, la coppia della libertà individuale e dello sviluppo delle forze produttive (apparato tecnico-economico) che ispira e connota le logiche evolutive del capitalismo, aldilà degli specifici contesti storici. Se l'antropologia della modernità inaugura la nuova configurazione dell'individuo come soggetto di bisogni, destinato all'appagamento immediato, è inevitabile che l'unico obiettivo che corrisponde a tale rappresentazione sia quello della massima espansione della ricchezza consumabile, al di fuori di ogni vincolo materiale dipendente da temporalità e spazialità tradizionali.
La dissoluzione del mondo nell'apparato capitalistico-tecnologico istituisce un codice immunitario globale capace di garantire la sopravvivenza della vita oltre ogni condizionamento relativo ai limiti naturalistici dell'universo e della materia.
La libertà dei moderni, infatti, è l'aspirazione a una potenza illimitata, che si autorealizza nel proprio sciogliersi da ogni vincolo e che, appunto per ciò, si capovolge nella necessità del meccanismo destinato a consentire il perseguimento dell'infinità degli scopi particolari. La metamorfosi continua diventa, per la modernità, il progressivo adeguamento del principio della libertà alla necessità dello sviluppo delle forze produttive della tecnica. Per realizzare la contingenza della infinita pluralità dei bisogni, occorre accettare la necessità del modo di produrre che massimizza la capacità di creare ricchezza.
L'orizzonte del post-human coincide con quello dell'evoluzione del capitale fino a divenire capitale cognitivo immateriale. Il vero telos della modernità è la sconfitta della finitezza e della mortalità, che unifica il pluralismo delle forme nella destinazione all'immortalità dell'essere.
Sotto questo profilo, la modernità appare non solo coerente con gli esiti attuali, ma si manifesta per quello che rappresenta profondamente: l'aspirazione a una coincidenza di essere e divenire, di morte e vita, che proietti la singolarità individuale in un universo destinato all'evoluzione infinita del codice immunitario della natura vivente.Il post-human è, cioè, il prolungamento dell'ideologia moderna dell'onnipotenza dell'autocostituzione della prassi e dell'immutabilità dell'essere. Un'ideologia dell'immortalità mascherata da conquista scientifica, che, intanto, ha l'effetto di perpetuare all'infinito l'antropologia dell'uomo soggetto di bisogni e del modo di produrre che a essa corrisponde.
Il post-human è la radicalizzazione dell'immanenza del codice vivente al processo evolutivo che non consente di ipotizzare alcuna trascendenza e alcun fondamento: norma e fatto coincidono nell'ibridazione di biologia e intelligenza artificiale, uomo e computer.»
(Pietro Barcellona, L'epoca del postumano, CittàAperta-Enna-2007)
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18 marzo 2012

«Globalizzazione, postmoderno e “marxismo dell’astratto”»

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Di Roberto Finelli

Fonte: Consecutio Temporum , Rivista critica della postmodernità

«(abstract. In Marx’s work we can isolate two different paradigms that need to be understood in a deeply different way from the interpretation provided by L. Althusser and his school during the 60’s and 70’s. This article posits a fundamental distinction between Marx’s theory of historical materialism and Marx’s theory of Capital. While the first one is centered on the promethean exaltation of the development of productive forces, the second one describes a social system grounded on an impersonal mechanism of socialization. This mechanism is constituted by an abstract and quantitative wealth characterized by a tendency towards unlimited accumulation. This second paradigm, that is the Marxian theory of Capital, could be named “Marxism of abstraction” in opposition to the first one, the Marxian theory of historical materialism, defined as a “Marxism of contradiction”. This article suggests that only a Marxism of abstraction can contribute to a profitable understanding of the contemporary transition from Fordism to Postfordism, from a regime of “rigid” accumulation to a regime of “flexible” accumulation of capital. 
– Nell’opera complessiva di Karl Marx sono presenti due paradigmi teorici che vanno interpretati in modo profondamente diverso da come hanno fatto negli anni ’60 e ’70 Althusser e la sua scuola, pretendendo di imporre al marxismo una struttura teorica estranea proveniente dallo strutturalismo linguistico. In questo saggio, per comprendere la realtà vera della globalizzazione che stiamo vivendo, si compie l’operazione teorica di differenziare il Marx del materialismo storico e dell’esaltazione prometeica dello sviluppo delle forze produttive dal Marx teorico del Capitale come un sistema sociale fondato, non sulla volontà e le decisioni di soggetti individuali, bensì su un fattore impersonale di socializzazione, costituito da una ricchezza non-antropomorfa ma solo quantitativa ed astratta, con una tendenza illimitata all’accumulazione. Solo un marxismo dell’astrazione, invece che un marxismo della contraddizione, può chiarire il cuore del passaggio contemporaneo dal fordismo al postfordismo, dall’accumulazione rigida all’accumulazione flessibile. Questo passaggio è incentrato sul fatto che ora il capitale mette a lavoro non più il corpo ma la mente delle forza-lavoro. Ma tale passaggio non modifica la sostanza interpretativa dell’impianto marxiano che consiste nell’assegnare al capitale, ad ogni rivoluzione tecnologica significativa, il compiti di condurre il lavoro a lavoro astratto, ossia a quel lavoro controllabile e normalizzabile che, nella sua assenza di variazioni e intepretazioni soggettive, costituisce la sostanza del valore astratto della ricchezza capitalistica).

1. L’«americanismo» come idealtipo della globalizzazione.

Le riflessioni che seguono nascono da quella che a me sembra la caratteristica più paradossale della realtà che stiamo vivendo: tanto caratterizzante l’intera realtà, storica e sociale contemporanea, da configurarla appunto come null’altro che un unico grande paradosso. Il paradosso è quello della contraddizione tra il piano dell’Essere e quello dell’Apparire, ossia tra il piano interiore e profondo della struttura del reale e quello esteriore della forme della coscienza individuale e collettiva con cui quella struttura viene appresa e conosciuta, anzi nel nostro caso bisogna dire viene distorta e misconosciuta.
Con il crollo del comunismo cosiddetto reale il mondo conosce oggi solo l’«
americanismo» come forma unica di civiltà e di organizzazione sociale. E l’americanismo, per quello che dirò subito, vale per me come la realizzazione, oggi, più completa e più avanzata del capitalismo, proprio come la maturità dell’Inghilterra valeva per Marx come la forma canonica del capitalismo dell’800. E americanismo senza America, americanismo oltre i confini d’America, può essere definita l’attuale globalizzazione, se la si considera come generalizzazione a tutti i paesi del globo, con gradi diversi ovviamente di sviluppo e di sottosviluppo, del medesimo modello di produzione, distribuzione e consumo di merci, della medesima ricerca di profitto, della medesima invasività e diffusione del mercato e della medesima attitudine a trasformare tutti i rapporti umani in rapporti quantificabili e mediati dal denaro.
Per altro non v’è dubbio che la globalizzazione debba essere vista, ancora oggi, soprattutto come maggiore velocità e ubiquità di spostamento del capitale finanziario e spesso solo speculativo, senza cedere alla facile quanto superficiale rappresentazione che la prospetta come il darsi di un unico mercato mondiale con un’unica concorrenza che genererebbe medesimi prezzi delle merci, del lavoro del denaro
[Cfr. su ciò R. Bellofiore, Dopo il fordismo, cosa? Il capitalismo di fine secolo oltre i miti, in R.Bellofiore (a cura di), Il lavoro di domani. Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, Biblioteca Franco Segantini, Pisa 1998, pp. 23-50.]. Laddove la sua effettiva realtà si presenta come non solo profondamente differenziata quanto asimmetrica, anzi tale che in essa polarità e distanze, differenze tra sviluppo e sottosviluppo si acuiscono, almeno per chi ragioni in termini di statistiche comparate e relative e non di dati assoluti di crescita e di progresso. Eppure la globalizzazione, pur sottratta al segno retorico di presunti universalismi e di omogenei sviluppi, può comunque essere considerata unitariamente come «una immane raccolta di merci», nel senso dell’aumento sempre più ampio e sempre più intenso della quota di popolazione mondiale che dipende per la propria riproduzione in modo integrale dall’esposizione e dalla mediazione con il mercato.
Ora il paradosso di cui parlavo all’inizio consiste, a mio avviso, nel fatto che proprio quando, con il venir meno del socialismo reale, si diffonde e s’impone, sia pure, torno a dire, con una configurazione a macchie di leopardo, un unico modello di vita economica e sociale, capace di stringere nella sua ricerca del profitto e della remunerazione monetaria qualsiasi tipologia, da quella più avanzata a quella più arcaica, di lavoro, viceversa in termini culturali e simbolici, alla consapevolezza e allo studio dell’uno e del modo in cui l’uno si articoli nella molteplicità delle differenze, s’è venuta sostituendo una cultura del frammento, dell’informazione e dell’atto linguistico-comunicativo da interpretare attraverso altre informazioni ed altri atti comunicativi, ossia la prospettiva di un’ermeneutica infinita che considera come tramontati concetti come verità, realtà, oggettività. S’è venuta facendo egemone insomma una cultura che rifiuta la prospettiva delle cosiddette ideologie, delle concezioni unitarie del mondo. La sistematicità delle quali viene infatti svalutata e degradata, quale grande favola narratrice o visione totalizzante e totalitaristica.
La contraddizione paradossale della realtà contemporanea si colloca perciò essenzialmente nello scarto tra reale e simbolico, per cui mentre da un lato si intensifica e si approfondisce l’attualità del capitalismo, che diviene cornice e legge unitaria del mondo, dall’altro si sviluppa un pensiero postmoderno, diffuso ed egemone, secondo cui la nuova società postindustriale e postfordista nella quale viviamo, almeno nell’Occidente avanzato – definita anche società della conoscenza e dell’informazione o società della high tecnology o società della fine del lavoro – [sarebbe] è una nuova formazione storico-sociale, che romperebbe con i principi classici della modernità, ottocentesca e novecentesca, inaugurando una nuova realtà che non si conforma più alla struttura di classi contrapposte, alla regola dello sfruttamento, al capitalismo industriale.
Per sciogliere questo legame di opposizione tra l’approfondimento capitalistico del moderno e il suo apparire nelle coscienze come postmoderno e postcapitalistico, io credo che, sia pure in modo molto rapido e schematico, sia opportuno chiarire la natura di quello che ho chiamato «americanismo». Riprendendo la concettualizzazione di Gramsci, che per primo ha introdotto il termine nella letteratura sociologica e politica
[Cfr. A. Gramsci,, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V.Gerratana, Einaudi, Torino 1975, III, pp. 2139-2181], propongo di definire «americanismo» quella tipologia di organizzazione sociale nella quale la «struttura» si estende e si dilata direttamente e senza mediazioni di ceti intellettuali o politici, a «sovrastruttura», producendo, insieme con l’economico, propriamente anche il culturale e il simbolico. Dove cioè l’«economico» produce nello stesso tempo a) le merci e i beni materiali; b) i rapporti sociali e le differenze di classe; c) l’immaginario e le forme generali della coscienza, individuale e collettiva. E dove quindi tale potenza, anzi onnipotenza, dell’economico, che si fa principio generatore dei diversi e molteplici aspetti della vita sociale, assegna all’americanismo la caratteristica di compagine totalitaristica e unidimensionale.
Quell’acuto geografo storico-sociale che è David Harvey, ai cui studi sul postmoderno da una prospettiva marxista è, insieme al lavoro di Frederic Jameson, assai utile richiamarsi, scrive in un testo del 1990, intitolato appunto
The Condition of Postmodernity, che “un particolare sistema di accumulazione può esistere perché il ‘suo schema di riproduzione è coerente’. Il problema consiste nel dare ai comportamenti di tutte le categorie di individui – capitalisti, lavoratori, dipendenti statali, finanzieri e tutti gli altri agenti politico-economici – una configurazione che permetta al regime di accumulazione di continuare a funzionare. Deve esistere perciò una materializzazione del regime di accumulazione sotto forma di norme, consuetudini, leggi, reti di regolazione, ecc., che garantisca l’unità del processo, cioè la coerenza dei comportamenti individuali con lo schema di riproduzione[D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, tr. it. di M. Viezzi, Net, Milano 2002, pp. 151-52. ]. Vale a dire che, se nella vita della società l’ambito culturale-simbolico comanda l’accesso al piano motivazionale dei comportamenti individuali, in una riproduzione sociale basata sull’accumulazione di capitale ne deriva, per l’istanza totalitaristica che si diceva la caratterizza, che anche quell’ambito virtuale e costituito dai modi del percepire, del rappresentare e del valutare, deve essere mediato e governato dalla logica di quell’accumulazione.
Ma comprendere in che senso la globalizzazione oggi sia una globalizzazione intenzionata ed egemonizzata dell’americanismo e che tipo peculiare di accumulazione di capitale oggi la caratterizzi implica sapere e dover distinguere all’interno della categoria generale di americanismo le due diverse tipologie di accumulazione, quella fordista o, come anche viene detta, dell’accumulazione rigida e quella postfordista o dell’accumulazione flessibile, che ne hanno scandito la storia durante il secolo scorso per giungere fino ai nostri giorni.
Converrà però fare, ai fini della mia esposizione, un passo indietro. Prima di definire e concettualizzare la differenza tra accumulazione rigida e accumulazione flessibile mi sembra utile infatti schematizzare quelle che, a mio avviso, sono state le acquisizioni teoriche fondamentali, ancora oggi – anzi oggi ancora maggiormente – valide di Marx sulla struttura economica del capitalismo. Esse possono, io credo, essere sintetizzate in quattro punti:
Primo (Quantità versus qualità)
Il capitalismo è obbligato costantemente alla crescita. Il capitale è ricchezza astratta, quantità di moneta che deve essere aumentata e accumulata. La natura quantitativa della sua ricchezza, espandibile tendenzialmente all’infinito proprio perché quantitativa, impone che il capitalismo per realizzare il profitto e l’accumulazione deve espandere costantemente la produzione, non curandosi del mondo umano e qualitativo, ossia operando indipendentemente dalle conseguenze di ordine sociale, politico, geopolitico ed ecologico.
Secondo (Lavoro astratto versus lavoro concreto)
La crescita dipende dallo sfruttamento della forza-lavoro durante il processo produttivo. Sfruttamento non significa pauperizzazione, ossia che i lavoratori guadagnino poco o in modo scarso e insufficiente rispetto alla loro riproduzione, bensì che il profitto nasce e dipende dalla differenza tra ciò che i lavoratori guadagnano e quanto creano. Il controllo della forza-lavoro durante il processo di lavoro, ossia la lotta di classe nella produzione, è dunque la condizione fondamentale della crescita e dell’accumulazione. La chiave di questo controllo sta nell’imposizione alla forza-lavoro di erogazione di lavoro astratto, ossia il riuscire a porre da parte della direzione d’impresa gran parte delle conoscenze, delle decisioni tecniche e dell’apparato disciplinare fuori dal controllo della persona che concretamente effettua il lavoro.
Terzo. Il capitalismo è costantemente dinamico dal punto di vita sia dell’innovazione tecnologica che dell’innovazione organizzativa. 
Ogni capitalista è esposto a una doppia concorrenza: quella con gli altri capitalisti e quella con i propri lavoratori. Gli investimenti nell’innovazione tecnologica e in quella organizzativa sono indispensabili, insieme, sia per la produzione di profitti ed extraprofitti sia per il controllo della lotta di classe.
Quarto. La dinamica del capitalismo è comunque di necessità esposta alla crisi. 
La struttura di classe della distribuzione del reddito non consente infatti l’assorbimento continuo dell’espansione e della crescita. Il capitalismo tende ad entrare in fasi periodiche di sovraccumulazione, in cui capitale inutilizzato e forza lavoro inutilizzata si fronteggiano inoperose e da cui in genere si torna ad uscire attraverso enormi distruzioni di capitale, merci e forza lavoro.
Di questo quattro punti che nella teorizzazione di Marx rappresentano le invarianti del modo di produzione capitalistico quello che costituisce la frontiera decisiva del confronto di classe è, come dicevo, almeno a mo avviso, il secondo, quello concernente la necessità da parte dell’impresa capitalistica di riuscire ad imporre alla forza lavoro – sia essa manuale o intellettuale non importa – l’erogazione di lavoro, non concreto, ma astratto, giacché «
lavoro astratto» significa lavoro disciplinato e disciplinabile, da cui è espulsa la soggettività della forza-lavoro, con tutte le implicazioni di non regolarità, discontinuità, non manipolabilità, non omologabilità che il soggettivo porterebbe con sé.
Per altro la questione e la realtà del lavoro astratto sono centrali nel pensiero maturo di Marx, non solo perché definiscono quanto di disumano si gioca nella produzione di capitale ma anche perché sono il fondamento della teoria del valore-lavoro, giacché come scrive lo stesso Marx nei Grundrisse, il fatto che sotto i prezzi monetari ci siano le quantità di lavoro, e di lavoro appunto omogeneo e scambiabile – come vuole appunto la teoria del valore-lavoro – se sul piano del mercato e dello scambio di compere e vendite può sembrare una ipotesi solo soggettiva, del solo Carlo Marx, pari quanto a verosimiglianza alle ipotesi delle altre teorie economiche, si fa invece realtà vera, in modo oggettivo, «
praticamente vera» [K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), trad. it. a cura di G. Backhaus, Torino, Einaudi 1976, vol. I, p.30.], come scrive Marx, quando nel cuore della produzione e dunque per milioni di uomini e donne che costituiscono la forza lavoro il lavoro si fa necessariamente astratto e per tutti tendenzialmente eguale ed omogeneo quanto all’uso capitalistico e alle modalità con cui viene praticato. Non a caso l’operaismo, con la sue mitologie e le sue forzature di una soggettività lavoratrice sempre all’attacco e sempre anticipata, quanto a iniziativa storica, rispetto al capitale, ha dovuto rimuovere da sempre dal suo orizzonte la questione sia del lavoro astratto che della teoria del valore-lavoro considerandoli residui di un Marx subalterno a Ricardo e alla scienza economica borghese [Per una discussione critica delle principali categorie dell’operaismo cfr. Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia, manifestolibri, Roma 2005.].

2. Americanismo di prima e di seconda generazione

Ma torniamo all’americanismo e alla centralità del comando sul lavoro nelle due fasi storiche dell’accumulazione rigida e dell’accumulazione flessibile.
Riguardo a tale distinzione, possiamo definire il fordismo come un compromesso particolare e specifico tra capitale e lavoro, per cui mentre la forza lavoro cede al capitale il controllo della produzione, dei tempi, dei ritmi, del proprio corpo, la stessa forza lavoro ottiene in cambio l’accesso all’acquisto dei beni di consumo di massa e, attraverso il welfare, ma questo avviene soprattutto in Europa, ottiene la partecipazione ai servizi dello Stato sociale.
Il fordismo-taylorismo si è basato, com’è noto, sullo strutturarsi insieme della grande fabbrica, organizzata secondo catena di montaggio, e dello scientific management, che imprigiona il corpo della forza-lavoro in una serie di operazioni parcellizzate e ripetitive. Solo che, come dicevo all’inizio, il fordismo-taylorismo è stato controllo del corpo non solo dal lato della qualità e quantità della prestazione lavorativa ma anche dal lato dei bisogni e dell’immaginario ad essi legati. Il fordismo ha significato infatti anche produzione standardizzata di beni di consumo di massa e tendenziale aumento, storicamente significativo, del salario reale, in conseguenza della maggiore concentrazione e forza contrattuale dei ceti operai.
Nell’arco del primo cinquantennio del XX° sec., soprattutto con il decollo economico legato allo sviluppo della produzione durante il secondo conflitto mondiale, il fordismo ha trasformato pertanto la funzione sociale della forza-lavoro, aggiungendo alla sua identità classica, ottocentesca, di erogatrice di energia lavorativa e di mero oggetto di sfruttamento all’interno della produzione, quella di soggetto del consumo nella sfera della circolazione e dell’uso delle merci. Ed è appunto a muovere da qui, dalla produzione di beni di consumo durevole di massa (abitazioni, macchine, autostrade, elettrodomestici), la cui disponibilità faceva uscire buona parte dei ceti popolari da un’esistenza di mera riproduzione fisica per introdurli a un’esistenza da cittadini, che l’industrialismo americano ha iniziato a produrre anche i bisogni, il desiderio e l’immaginario sociale del lavoratore-consumatore. Così, nell’orizzonte di una cittadinanza cui si accedeva attraverso il consumo, l’industria capitalistica, direttamente, nel periodo storico considerato – e senza bisogno della mediazione di ceti intellettuali e politici che fossero preposti all’elaborazione del consenso e delle ideologie – ha prodotto le forme dominanti e generali della coscienza individuale e collettiva. Basti pensare in tal senso a quanto radio, televisione e industria cinematografica abbiano amplificato, ma né inventato né originalmente concepito, l’immagine tipica e ideale della famiglia americana, cellula della democrazia e della libertà, con l’uomo procacciatore di reddito attraverso il lavoro e la donna riproduttrice dei figli e di una vita domestica abbellita e alleggerita dagli elettrodomestici e dai beni di consumo durevole del nuovo industrialismo.
Quando nella prima metà degli anni ’70 questa tipologia, insieme di accumulazione capitalistica e d’integrazione sociale, entra in crisi, per la concomitanza di più cause, tra cui in primo luogo la saturazione del mercato dei beni di consumo durevole e il cambiamento nei rapporti di forza internazionale per cui gli Stati Uniti passano dalla condizione di paese creditore alla condizione di massimo paese debitore del mondo, e quando il crollo del sistema di Bretton Woods testimonia che gli Stati Uniti non hanno più il potere di controllare da soli la politica monetaria mondiale, l’americanismo si trova obbligato a concepire un nuovo modello di accumulazione la cui base tecnologica è costituita, per dirla assai in breve, dall’applicazione dell’informatica e delle macchine dell’informazione ai processi produttivi, alla distribuzione e ai servizi, oltreché dall’utilizzazione della forza-lavoro, riferita non al corpo e alla manipolazione di oggetti materiali di lavoro, bensì riferita alla mente e ad operazioni logico-calcolanti su dati alfa-numerici.
Tale rivoluzione tecnologica, legata alle macchine informatiche, consente una nuova organizzazione del tempo e dello spazio, dando vita a quella che è stata chiamata correttamente una nuova «
compressione spazio-temporale» del mondo capitalistico. Una riorganizzazione del tempo e dello spazio che appunto ha offerto all’americanismo la possibilità storica di sviluppare una nuova tipologia del processo di accumulazione capace di confrontarsi e di aggirare tutte le rigidità dell’accumulazione fordista. La flessibilità e la mobilità, la maggiore velocità del tempo di rotazione del capitale, al pari del tempo di rotazione dei consumi e della durate dei beni, divengono infatti i nuovi criteri con cui riorganizzare l’intero mondo economico: rispettivamente i processi produttivi e la tipologia dei prodotti, i mercati dei lavoro, perché di mercati e non di un solo mercato del lavoro bisogna parlare, e i modelli di consumo.
Molto è già stato scritto sull’applicazione della robotica e dell’informatica alla produzione, sui sistemi di gestione del magazzino just-in-time, sull’esternalizzazione di funzioni e servizi prima all’interno del ciclo produttivo, sulla crescita del subappalto e delle attività di consulenza, sullo smembramento delle grandi unità produttive, sulla delocalizzazione delle imprese, sulla riduzione della durata di vita e di consumo delle merci, sulla sostituzione delle economie di scala con le cosiddette economie di scopo, ossia sulla crescente capacità di produrre una gran varietà di beni a basso prezzo e in piccole quantità. Molto è stato scritto insomma sulla differenza tra il paradigma industriale del vecchio capitalismo basato su una struttura meccanicistica e il paradigma postindustriale del nuovo capitalismo basato sulle reti di mercato. E molto è stato scritto, oltre che sulla frantumazione del mercato del lavoro, sull’utilizzazione di lavoro precario, di lavoro connesso con le masse di emigranti, sulla grande riorganizzazione del sistema finanziario mondiale coordinato per mezzo di telecomunicazioni istantanee, che ha visto da un lato la formazione di conglomerati finanziari e di intermediari di estensione mondiale, con un’enorme capacità di spostare denaro, e dall’altro un decentramento dei flussi finanziari attraverso la creazione di nuove borse e di mercati finanziari assolutamente nuovi, come quello dei fondi d’investimento, o l’espansione di mercati finanziari già esistenti come quello di futures su merci o dei debiti a termine.


3. Al moderno il corpo, al postmoderno la mente.

Pure non va evitata la domanda di fondo che il passaggio dal paradigma industriale a quello postindustriale pone sul piano storico e sociale.
Si tratta del transito ad una formazione storico-sociale diversa e nuova rispetto a quella moderna, come vogliono i sostenitori del postmodernismo, con la loro teorizzazione della fine della società fondata sulle classi e sulla lotta di classe, con la loro teorizzazione della fine della società del lavoro, e il passaggio dalla fatica del lavoro manuale alla creatività del lavoro intellettuale e comunicativo, con la caduta del comunismo cosiddetto reale e la fine delle ideologie?
O si tratta, nel passaggio, dal fordismo al postfordismo, di una mutazione solo superficiale e apparente del capitalismo che non ne modifica la struttura di fondo e che lascia inalterate e valide tutte le categorie della classica interpretazione marxiana. Da parte di chi sostiene quest’ultima tesi, si sostiene che di fondo non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Che tutto si può ricondurre al plusvalore assoluto e al plusvalore relativo di Marx, spiegando la prima categoria la dislocazione delle imprese da regioni ad alto salario e a orario contenuto a regioni di basso salario con giornata lavorativa lunga, e spiegando la seconda categoria le innovazioni organizzative e tecnologiche che consentono extraprofitti temporanei alle aziende innovatrici e poi profitti più generalizzati dovuti alla riduzione del costo dei beni che costituiscono il salario reale dei lavoratori. Che la tendenza del capitalismo alla mondializzazione, all’espansione dei mercati, al trasferimento di capitali, c’è sempre stata. E che dunque nulla cambia se non per un ampliamento delle quantità o per una utilizzazione più intensa delle categorie del capitalismo classico.
Bene io credo che non si possa seguire nessuna delle due strade, né quella della discontinuità storica dei postmodernisti né quella della continuità, senza trasformazioni radicali, teorizzata dai marxisti tradizionali. A mio avviso va invece percorsa un’altra strada che unisca insieme modernità e postmodernità, senza rinunciare nello stesso tempo ad utilizzare gli strumenti teorici concepiti da Marx. A patto però, come si vedrà subito, di abbandonare il marxismo tradizionale e classico della «contraddizione» e di estrarre dallo stesso Marx un altro paradigma teorico che da ormai un trentennio io provo a proporre, a concettualizzare e a definire come il «
marxismo dell’astrazione». Solo il marxismo dell’astratto può consentire infatti di comprendere e di definire il nesso tra postmoderno e moderno come un nesso non diacronico, come se fossero due tempi od epoche storiche diverse, ma come un nesso sincronico, per il quale il postmoderno è null’altro che il moderno, ma un moderno capace come non mai di nascondersi e dissimularsi a sé stesso. Solo un marxismo che usa come sua categoria fondamentale interpretativa e di ricerca non la contraddizione, ma l’astrazione può cioè confrontarsi con la nuova totalità storico-sociale che il capitale oggi pone in essere, legando le nuove modalità dell’accumulazione economica con il nuovo sistema di regolazione ideologico e politico, con il nuovo sistema di rappresentazioni collettive, che quelle stesse modalità richiedono e producono.
A tal fine è bene ritornare sull’americanismo, sull’americanismo che possiamo chiamare di seconda generazione, e mettere a fuoco che tipo di relazione specifica si dia oggi tra il nuovo lavoro, il cosiddetto lavoro intellettuale o mentale, e le nuove tecnologie dell’informazione. Non perché questa nuova organizzazione del lavoro coincida con la globalizzazione, dato che il capitale è in grado oggi, com’è noto, di utilizzare, ovunque ne abbia la convenienza, e come parti non accessorie del suo sistema produttivo, vecchi sistemi di lavoro a domicilio, artigianale, patriarcale-familiare o paternalistico-mafioso. Ma perché è il possesso e l’uso, quanto più avanzato, della tecnologia informatica che garantisce le posizioni di punta e l’egemonia sia nei diversi comparti del capitale produttivo che di quelli del capitale finanziario.
Da parte dei più, non solo dagli imprenditori e dalle direzioni aziendali, ma anche dai sociologi, dai sindacalisti, dai politici, dagli intellettuali di varia natura, ci è stato e ci viene detto che con la tecnologia informatica e con la messa al lavoro, non del corpo, ma della mente, si conclude finalmente un’antropologia lavorativa connotata dalla fatica e dal gravoso confronto con la durezza del mondo materiale e si inaugura l’epoca di un lavoro cognitivo e creativo, basato sull’uso dell’intelligenza e della conoscenza e sul confronto, agile e dinamico, con un mondo di dati virtuali. Anche dagli operaisti, sempre pronti a scoprire formule che stupiscano, ci viene detto che il lavorare è ormai un comunicare e che l’essenza della prassi, di quella che appunto una volta era la prassi materiale, oggi è il linguaggio, da cui muove la possibilità di stringere in un general intellect discorsivo, in una rete di comunanza comunicativa, la massa dei nuovi lavoratori della mente.
Io credo, al contrario, che sia essenziale sottrarsi a questo riduzionismo linguistico che è diventato oggi l’orizzonte generale del senso comune, non solo intellettuale ma generalizzato e di massa, e considerare che l’informazione in un processo di lavoro capitalisticamente organizzato non è mai solo descrittiva ma è sempre anche prescrittiva; implica cioè un codice di senso predeterminato che obbliga la forza-lavoro in questione a muoversi secondo un contesto di possibilità già definite e strutturate. Non va dimenticato infatti che la caratteristica fondamentale delle nuove tecnologie è quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del cervello umano. Tale mente artificiale può valere come ampliamento di memoria, a disposizione di un soggetto elaboratore e creativo, solo nel caso di attività private e ad alto contenuto di professionalità. Nel caso di processi lavorativi finalizzati alla produzione-circolazione di merci, alla produzione di servizi, alla informatizzazione di funzioni burocratiche pubbliche funziona invece come mente esterna che sistema e accumula le informazioni secondo un codice che implica contemporaneamente schede o disposizioni predeterminate di lavoro, ossia modalità flessibili ma predeterminate d’intervento e di risposta da parte della mente del lavoratore non manuale.
E’ dunque l’«
anima», diciamo così, del nuovo lavoratore cognitivo, la sua intelligenza sia come comprensione globale-intuitiva che come attitudine logico-discorsiva, ad essere ora subordinata a un programma di senso e di operazioni già predefinite. Vale a dire ossia che proprio ciò che finora veniva definito come la caratteristica più personale e non omologabile del soggetto umano, proprio ciò che il fordismo teneva ben lontano dal campo di battaglia nel suo confronto di classe – appunto le anime dei lavoratori – ora entrano in un campo di fungibilità interagente ma subalterna con la macchina dell’informazione. La quale per suo verso, accumulando quantità d’informazioni alfa-numeriche sulla base del linguaggio binario, dell’alternanza cioè di zero ed uno, riproduce il mondo reale eliminando da esso qualsiasi ambivalenza e contraddizione dalla realtà secondo la riduzione che è propria di una semplificazione matematico-quantitativa. Matematizzazione e codificazione del mondo che dal lato del lavoratore cognitivo e della sua prestazione richiede la cooperazione di una soggettività istituita più sulla valorizzazione astratto-calcolante del proprio essere che non sulla messa in gioco di tutte le altre componenti del proprio sé.
Ma è proprio in questa riduzione della coscienza e del lavoro mentale di massa ad operazioni precodificate di senso che si colloca a mio avviso il passaggio da moderno a postmoderno, nel senso della negazione della profondità della mente o meglio dello svuotamento di una soggettività, la quale nel momento stesso in cui viene valorizzata e messa in campo, è obbligata invece a rinunciare alla sua autonomia, ad una verticalità di percezione e di giudizio che dovrebbe aver le sue radici nella profondità del proprio corpo emozionale e nello stratificarsi della sua memoria. Lo svuotamento della soggettività, il venir meno della sua profondità ha come effetto speculare la superficializzazione del mondo, un mutamento cioè storico-antropologico del sentire, per cui il mondo, l’esperienza del vivere, la vita sociale e individuale appaiono e vengono percepite necessariamente come una superficie frammentata, fatta di momenti ed eventi fondamentalmente slegati tra loro proprio perché non tenuti insieme da una struttura di profondità. Così il postmoderno, la visione del mondo che afferma, per esprimerci con i termini della filosofia, che l’Essere è linguaggio, che non c’è nessuna realtà-verità oggettiva, che non ci può essere nessun pensiero forte e sistematico, ma che viceversa tutto è segno da interpretare attraverso altri segni, è legittimamente l’ideologia del postfordismo, in quanto è un modo di rappresentare e percepire il mondo che viene prodotto con lo stesso atto della produzione dei beni economici, materiali o immateriali che essi siano.
Marx ci ha insegnato che se il capitale è ricchezza astratta in processo, una delle condizioni fondamentali della sua riproduzione e accumulazione è che astratto, cioè non concreto, bensì controllabile e normalizzabile sia il lavoro che costituisce la fonte di quella ricchezza: secondo quell’organizzarsi tecnologico della produzione, che appunto lui nel Capitolo VI inedito definisce la «
sussunzione reale» del lavoro al capitale. Ad ogni generazione di lavoratori, ad ogni nuova immissione generazionale di forza-lavoro, il capitale deve affrontare, ogni volta di nuovo e con nuove innovazioni tecnologiche, questo problema, per risolverlo e garantirsi la condizione fondamentale della sua esistenza e riproduzione.
Con il fordismo la sussunzione reale, il controllo e la disciplina concernevano il corpo della forza lavoro e rispetto a ciò il punto di vista di classe poteva riconoscersi in un marxismo della contraddizione che teorizzava il darsi di soggettività collettive e sociali contrapposte, in opposizione tra loro, riguardo alla battaglia sul corpo appunto e sulla sua normalizzazione lavorativa. «
Contraddizione» perché la normalizzazione della forza-lavoro si compiva attraverso un’ortopedia del corpo operaio imposta con costrizione dall’esterno e dalla forza del macchinismo. Con il postfordismo e l’accumulazione flessibile la sussunzione reale di Marx concerne, come dicevo, la mente dell’erogatore di lavoro. Ma ciò significa – e questo snodo io credo sia essenziale per la comprensione del presente – che, attraverso la colonizzazione della mente da parte dell’informatica organizzata a scopi di profitto viene prodotta e riprodotta, insieme al capitale, una tipologia capitalistica di soggettività. Tale tipologia di soggettività patisce lo svuotamento della sua concretezza di vita da parte dell’astratto capitalistico e della sua tecnologia e contemporaneamente la compensazione di tale svuotamento attraverso il sovrinvestimento, la sovradeterminazione, isterica e imbellettata, della superficie del proprio esperire [Sulla cultura dell’immagine o del «simulacro» cfr. F. Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, tr. it. di S.Velotti, Garzanti, Milano 1989.]. Così mentre partecipa dell’esaltazione ideologica collettiva dell’informatica, della partecipazione a una comunicazione generalizzata e dell’emancipazione dal lavoro che ne dovrebbe conseguire, soffre invece di vuotezza emotiva, di piattezza e d’indeterminatezza d’esistenza.
Di questo nesso tra svuotamento dell’interno e sovradeterminazione dell’esterno – assai più che delle vecchie categorie dell’alienazione e della contraddizione – deve dar conto il nuovo marxismo dell’astratto. E ciò proprio per poter riproporre alla fine, di nuovo, un marxismo della contraddizione, attraverso la formazione di una nuova soggettività, individuale e collettiva, che, a partire dalla mortificazione e dallo svuotamento compiuti dal mondo dell’astratto ai danni del mondo della vita, ritorni a pensare e a praticare il valore epocale della fuoriuscita storico-sociale dal capitalismo.
Ma per giungere a ciò è necessario passare oggi attraverso il marxismo dell’astrazione e rileggere alla sua luce
Das Kapital di Karl Marx, comprendendo che Marx ha fatto, prima che storia, scienza del presente e che questa scienza non si basa sulle volontà e sulle azioni di soggetti individuali, bensì su un fattore impersonale di socializzazione che si chiama appunto Capitale, costituito da una ricchezza non antropomorfa, ma astratta e non finalizzabile a scopi di armonia e di benessere umano, di cui Marx ha codificato la struttura secondo metamorfosi e passaggi, regole finanziarie e produttive, rapporti di subordinazione di classe, la cui natura obbligata s’impone agli attori sociali e individuali che di volta in volta, secondo tempo, luogo, merce e mercato determinati, e se si vuole anche secondo diverse caratterizzazioni psicologiche, svolgono quelle funzioni, invece, di per sé impersonali e rette da una logica in ogni dove eguale. Certo ci sono ovviamente i molti capitali e il passaggio dall’Uno ai molti, dalla configurazione del Capitale in generale ai molti e concreti capitali, costituisce il problema del passaggio dal 1° al 3° libro di Das Kapital, coincidendo con la travagliatissima questione della trasformazione dei valori in prezzi. Ma quel passaggio è problematico per lo stesso Marx, oltre che per la natura incompiuta della sua opera, proprio perché Marx vuole essere fedele all’impostazione del primo libro, alla definizione impersonale e meramente quantitativa che ha dato del Capitale come valore in processo, e continuare a pensare e a concettualizzare l’agire concreto dei molti capitali secondo gli obblighi di regole e proporzioni della creazione e distribuzione di «quantità» di valore, che consegnano gli individui umani, quale che siano le loro capacità d’iniziativa e d’intraprendenza, a vivere solo come personificazioni di funzioni economiche, ovvero, secondo quanto dice Marx, ad essere solo Charaktermasken, maschere teatrali che recitano un copione che già è stato loro scritto e predatato [Sull’uso e il significato di Charaktermaske in K. Marx cfr. W.F. Haug, Charaktermaske, in Id. (a cura di), Historisch-Kritisches Wörterbuch des Marxismus, Hamburg 1995, Bd. 2, pp. 435-451.].

4. Una produzione capitalistica di soggettività.

Tra moderno e postmoderno dunque, secondo la tesi che qui si propone, si dà discontinuità, non quanto a modo di produzione e a formazione economico-sociale, bensì quanto a tipologia di lavoro astratto erogato e quanto ad effetto generale di feticismo che la ricchezza astratta del capitale e la sua accumulazione sono in grado di mettere in atto. Il passaggio da un’accumulazione di lavoro astratto, che mette in scena e in gioco il corpo, a un’accumulazione che mette in scena la mente, conduce infatti il capitale a una sorta di accentuata invisibilità. Al passaggio cioè da una coreografia esterna, fatta di materia e di spazialità, ad una coreografia interna e immateriale, fatta di operazioni e funzioni calcolanti-discorsive. E appunto in tale dislocazione dall’esterno all’interno, il capitale assume una configurazione sempre meno sensibile-percettiva, per inaugurare una modalità d’esistenza più impalpabile e virtuale. E’ il fantasmatizzarsi del capitale, il suo farsi puro spirito, come realizzazione di una tecnologia e di un’organizzazione di sé ancor più adeguati al suo concetto, secondo la definizione marxiana di ricchezza astratta – cioè non confinabile in nessuna materia particolare – che accumula se stessa.
A tale farsi interiore e fantasmatico del capitale, a tale suo smaterializzarsi e rendersi pressoché invisibile, corrisponde, come abbiamo detto, un’eccesso di visibilità nella superficie delle cose e dell’esperire. La tecnologia informatica conduce infatti a un tale svuotamento-colonizzazione della mente da parte dell’astratto da privarla della propria dimensione di profondità e di renderla funzionale alla sola dimensione di acquisizione-elaborazione di dati esteriori. Per cui all’interiorizzarsi del capitale si accompagna una produzione capitalistica di soggettività
[Per l’introduzione di questa espressione cfr. D. Balicco, Non parlo a tutti, Franco Fortini intellettuale politico, manifesto libri, Roma 2006.] capace di esperire il mondo solo nella sua trama di superficie, quale serie di eventi e di fatti, che, senza rimandare a nessi più interni, si concludono nell’attimo appariscente della loro vita accidentale e seriale.
La produzione capitalistica di soggettività, attraverso la nuova tipologia dell’accumulazione dell’astratto, produce dunque una soggettività esposta più al dominio della quantità che non all’esperienza della qualità. Cioè più un io che si fa spettatore e fruitore di pezzi di mondo sciolti da ogni vincolo reciproco che non un io capace di sintetizzare e riunificare il proprio esperire attraverso valenze significative di relazione.
E’ un tipo di individualità definibile – in conformità all’orizzonte storico del capitale-quantità – come un «
io-quantità», ben esplicabile attraverso la categoria hegeliana della cattiva infinità, in quanto io che, non riuscendo a padroneggiare, attraverso sintesi, la molteplicità del proprio mondo, interno ed esterno, è destinato a trascorrere in «un assoluto divenir altro», in un allontanamento da sé che si traduce nell’essere colonizzato dall’«esteriore».
Vale a dire che, con la produzione capitalistica di soggettività, si genera un individuo catturato più dall’esterno che non dall’interno e incapace perciò di far riferimento alla propria interiorità emozionale come luogo fondamentale, in ultima istanza, di valutazione e di sintesi del proprio vivere. E dove solo la sovradeterminazione retorica e artificiale, «isterica» è stato giustamente detto, di un mondo esterno, frantumato in immagini di superficie, compensa, sul piano degli affetti, l’eclisse di questo fondamentale senso interno. E’ l’individualità postmoderna che, priva dell’interiorità dell’emozione e della memoria, trasferisce l’investimento affettivo, rimosso se non addiritura forcluso, nella sovradeterminazione, imbellettata ma vuota, del mondo esteriore.
Ora appunto per comprendere le conseguenze di un’erogazione costante di attività astratta sulla soggettività astratta, nella quale viene meno ogni capacità di dar senso e forma profonde al proprio agire, – per porre come problema fondamentale dell’oggi il nesso tra eclisse dell’emotività e suo trasfert sull’esterno di un mondo ridotto a pellicola di superficie – il marxismo dell’astratto obbliga ad abbandonare il marxismo della contraddizione e dell’antropologia semplificata del giovane Marx, per il quale alienazione e sfruttamento dell’essere umano non possono non generare una forza sociale rivoluzionaria, pronta a recuperare la sua essenza e dignità conculcata e a contraddire l’assetto economico e politico dominante.
Questa teoria meccanica e automatica del conflitto sociale nasce, nel Marx prima del
Capitale, dalla valorizzazione indiscussa dell’homo faber, quale soggettività indiscussa e prometeica del materialismo storico, e da una conseguente visione delle forze produttive come elemento comunque progressivo e accumulativo della storia umana. Per cui a muovere dalla centralità dell’uomo produttore e dalla sua sempre più dispiegata e collettiva produttività non potrebbe non darsi, in presenza di rapporti sociali di proprietà e di distribuzione privata, un inevitabile configgere tra la socialità del produrre e l’appropriazione individualistica di una ricchezza collettivamente generata. Per dire insomma che nel Marx della contraddizione, quale istituzione fondativa della società moderna, opera la mitologia di un soggettività umana, fabbrile e comunitaria, presupposta al concreto svolgersi delle realtà storico e sociali [Cfr. su ciò E. Screpanti, Comunismo libertario. Marx, Engels e l’economia politica della liberazione, manifestolibri, Roma 2007, pp. 32-44. Sull’organicismo e il comunitarismo del giovane Marx, che assegnano, a ben vedere, una fondazione spiritualistica al suo preteso materialismo mi permetto di rinviare al mio Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri, Torino 2005], che non può non costituirsi come opposizione e alterità irriducibile a qualsiasi relazione pratico-economica che presuma di tradurla da soggetto in oggetto, da soggetto in predicato del proprio agire e del proprio creare ricchezza. E quando il Marx maturo in un celebre passo dei Grundrisse afferma che il lavoro è il «non-capitale» [K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), op. cit., p. 244.], torna ad assegnare al lavoro lo statuto di essere per principio altro, ossia ontologicamente eterogeneo e antagonista rispetto al capitale e alla sua pretesa di dominio incontrastato e assoluto.
Invece il passaggio alla tipologia dell’accumulazione flessibile sottrae a mio parere ogni legittimità al paradigma della centralità operaia, non tanto o non solo nel senso della riduzione drastica del lavoro manuale nell’ambito dei settori economici tecnologicamente più avanzati, quanto e soprattutto nel senso socio-politico dell’esistenza di una classe dotata, malgrado la violenza dello sfruttamento e dell’espropriazione cui viene sottoposta, di un’autonomia di origine e di funzione che la renderebbe comunque eccedente rispetto alla totalizzazione capitalistica. Il postfordismo non toglie la centralità del nesso forza lavoro-capitale come chiave di volta della società contemporanea ma toglie l’illusione di una forza lavoro quale per definizione soggettività collettiva e antagonista. Anzi pone una realtà paradossalmente rovesciata, quale quella di una forza lavoro mentale che presume di sapersi soggetto, non a dispetto e in opposizione, ma proprio nella coincidenza con il suo svuotamento e il suo essere reso oggetto.
Per cui, senza dimenticare nulla di un secolo di lotte dell’operaio fordista e dell’enorme permanenza del lavoro manuale nell’attuale economia-mondo, quello che qui preme sottolineare è che, nel passaggio dal fordismo al postfordismo, il capitalismo a base tecnologica informatica rende a sé più facilmente interno, ed omogeneo al proprio processo di valorizzazione, il lavoro. Possiamo aggiungere, non reprimendo o violentando la soggettività, bensì impedendole di nascere e costituirsi in quanto tale. O per dir meglio, negandola proprio attraverso la messa in scena di un processo fittizio di soggettivazione e la valorizzazione di null’altro che la sua medesima silhouette.
Ma affermare questo, non può non avere, com’è evidente, conseguenze profonde quanto a decostruzione/ricostruzione dell’intero apparato categoriale di Marx. Giacché l’espulsione o la marginalizzazione della categoria della contraddizione rispetto alla centralità di quella dell’astrazione implica il rifiuto di ogni soggettività presupposta, qual è quella che invece a mio avviso continua ad operare in tutta l’opera di Marx. Ed implica, a muovere dalla cruda realtà della nostra moderna postmodernità, l’assunzione in tutta la sua più ampia serietà del Capitale quale totalità, che produce, come si diceva, il triplice piano dei beni mercantili, dell’asimmetria delle disuguaglianze sociali, e dell’immaginario dissimulatorio attraverso cui quella asimmetria deve essere negata e coperta. Ricordando, a chi critica tale analisi di reiterare il vecchio discorso sul totalitarismo dell’integrazione capitalistica della scuola di Francoforte, che autori come Adorno, Horkheimer, Marcuse non hanno fatto mai del processo di lavoro e dello specifico uso capitalistico della forza-lavoro il luogo generativo della socializzazione e di una totalizzazione inclusiva persino della produzione delle forme di coscienza, interessati com’erano più al capitalismo della circolazione, del feticismo della merce, dell’omologazione dei consumi e dell’industria culturale.
Invece io credo che, muovendo dal modo in cui l’astratto pervade oggi e svuota le nostre vite consegnandole alla compensazione isterica di un fantasma di soggettività, s’illumina di verità, con un potente effetto di retroazione storica, proprio la teorizzazione marxiana di
Das Kapital come soggetto, di fondo unico e dominante, della storia moderna in quanto accumulazione, tendenzialmente senza fine, di ricchezza astratta. A patto però di porre questo Marx appunto contro il Marx della contraddizione operaia e proletaria, della soggettività presupposta dell’homo faber, del socialismo come esito necessario di una filosofia della storia fondata sullo sviluppo delle forze produttive, della concezione materialistica della storia come supposto predominio in ogni fase della storia e in ogni formazione sociale della materia di contro allo spirito. A patto cioè di liberarci della pretesa facilità di una contraddizione oggettiva e di collocarla invece nell’animo e nella mente della soggettività di Marx, quale certamente genio ed eroe eponimo della modernità, ma pensatore anche multiverso e contraddittorio, e dotato perciò di molte arretratezze accanto a profondissime intuizioni e concettualizzazioni. Senza alcuna intenzione, come talvolta è stato detto, di riscoprire, con il sovrappiù di un filologismo colto e accademico, la purezza originaria e incontaminata, al di là dei marxismi, del suo pensiero. Qui non si tratta di far rivivere, oltre le deformazioni di scuola e di partito, un Marx autentico, ma di far morire il Marx da sempre impari a pensare la modernità a fronte del Marx ancora vivo, anzi ogni giorno ancora più attuale.
Ma appunto pensare ciò che da sempre è vivo e ciò che è morto nell’opera di Marx significa, a mio avviso, liberare la sua matura critica dell’economia, quale scienza di un soggetto astratto e non-antropomorfo, dalle pastoie della filosofia della storia che pure il Moro ha intensamente concepito, quale divenire predeterminato di un soggetto antropomorfo e antropocentrico.
Detto questo, per i limiti di spazio in cui questo intervento va contenuto, non è possibile aggiungere altro e svolgerlo analiticamente. Deve perciò essere rinviata altrove la
pars costruens del discorso: quella volta al futuro e alla configurazione di una soggettività, individuale e collettiva, che possa farsi carico, ma in modo profondamente diverso ed originale, degli ideali di emancipazione e di trasformazione sociale delle generazioni e delle classi subalterne che ci hanno preceduto.
Qui posso solo dire che non potrà darsi ipotesi alcuna di fuoriuscita storica dal capitalismo se non si abbandona il materialismo spiritualistico e fusionale dell’antropologia di Marx e non la si sostituisce con un nuovo materialismo che attinga come sua fonte fondamentale d’ispirazione alla psicoanalisi. Come ho già detto altrove
[Cfr. R. Finelli, Il diritto a una prassi futura, in R.Finelli-F.Fistetti- F. Recchia Luciaini- P. Di Vittorio (a cura di), Globalizzazione e diritti futuri, manifestolibri, Roma 2004, pp. 15-28.], la psicoanalisi ha complicato enormemente l’antropologia dell’umano, perché ha scoperto e teorizzato che prima dell’alterità orizzontale, della relazione cioè con gli altri esseri umani, il principio dell’alterità è interiore e si dà per ciascuno di noi nella compresenza e nell’irriducibilità del corpo alla mente. Ossia nel convincimento che la mente e il pensiero nascano nell’essere umano con il compito primario di dare coerenza e padroneggiare la complessità impulsiva e riproduttiva della vita corporea. E che tale costruzione verticale della soggettività sia, nello stesso tempo, inscindibilmente intrecciata con la sua costruzione orizzontale, quanto cioè a necessità dell’essere riconosciuta, accolta e legittimata da un’altra (o altre) soggettività.
Senza muovere da tale nuovo materialismo, che integra i tradizionali bisogni materiali con il bisogno di ciascuno al riconoscimento della propria irripetibile singolarità, non ci potrà essere, io credo, nessuna proposta antropologica e politica capace di contrastare la messa in gioco della falsa soggettivazione posta in essere dall’astrazione capitalistica. Per questo il marxismo dell’astratto lascia cadere la vieta antropologia giovanil-marxiana e si apre alla fecondazione della scienza antropologica più innovativa del Novecento qual è stata ed è la psicoanalisi. Ma di tutto questo sarà bene argomentare altrove, con spazi e moduli analitici più appropriati.
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