"«India» raccoglie una serie di corrispondenze scritte da Karl Marx direttamente in inglese da Londra tra il maggio 1853 e l'aprile 1859 e apparse sul quotidiano americano «New York Daily Tribune»"
"La rivolta indiana"
(Karl Marx; Londra, 4 settembre 1857. Uscito su "New York Daily Tribune" nr.5119, 16 settembre 1857)
«Le violenze commesse in India dai sepoys in rivolta sono veramente spaventose, orrende, indicibili, quali si pensa di poter vedere soltanto nelle guerre d'insurrezione, di nazionalità, di razze e soprattutto di religione; in una parola, come quelle che l'Inghilterra rispettabile soleva applaudire, quando erano perpetrate dai vandeani sui "bleus", dai guerriglieri spagnoli sui francesi miscredenti, dai serbi sui loro vicini tedeschi e ungheresi, dai croati sui ribelli viennesi, dalla Garde Mobile di Cavaignac o dai "décembristes" di Bonaparte sui figli e sulle figlie della Francia proletaria. Per quanto infame, la condotta dei sepoys non era che il riflesso, in forma concentrata, della condotta degli stessi inglesi in India, non solo durante il periodo della fondazione del loro impero orientale, ma anche durante l'ultimo decennio di una dominazione ormai consolidata.
Per caratterizzare questa dominazione, basti dire che la tortura rappresentava un'istituzione organica della loro politica finanziaria. C'è nella storia umana una sorta di nemesi; ed è una legge della nemesi storica che il suo strumento sia forgiato non da chi subisce il torto ma da colui stesso che lo compie.
Il primo colpo sferrato alla monarchia francese venne dalla nobiltà, non dai contadini. La rivolta indiana comincia non con i ryots, torturati, offesi, spogliati dai britannici, ma con i sepoys, che essi avevano vestiti, nutriti, coccolati, soddisfatti e favoriti. Per trovare un parallelo alle atrocità dei sepoys non serve, come fanno alcuni giornali londinesi, richiamarsi al medioevo, e neppure cercare al di là della storia dell'Inghilterra contemporanea. Basta studiare la prima guerra cinese, un evento, per così dire, di ieri. I soldati inglesi commisero allora degli orrori semplicemente per il gusto di commetterli, giacché non erano spinti nè da fanatismo religioso nè da un esasperato odio contro una razza arrogante e conquistatrice, nè erano provocati dall'ostinata resistenza di un eroico nemico.
Stupri, bambini impalati, interi villaggi messi a fuoco erano soltanto una forma mostruosa di svago, tutte cose riferite non dai mandarini ma dagli stessi ufficiali inglesi.
Anche nell'attuale catastrofe sarebbe un completo errore supporre che la crudeltà stia tutta dalla parte dei sepoys, e che la naturale gentilezza d'animo sia tutta da parte degli inglesi. Le lettere degli ufficiali britannici trasudano malignità.
Scrivendo da Peshawur un ufficiale descrive come il 10° cavalleria irregolare venne disarmato per aver trasgredito l'ordine di caricare il 55° fanteria indigena. Ed esulta perché quegli uomini erano stati non solo disarmati ma spogliati di vestiti e scarpe e, dopo avergli dato 12 pence a testa, fatti marciare fin sulla sponda dl fiume, e qui caricati su barche e spinti a valle dell'Indo, dove lo scrittore si rallegra al pensiero che tutti quanti senza eccezione sarebbero finti annegati nelle rapide. Un altro, in un'altra lettera, ci racconta che avendo alcuni abitanti di Peshawur fatto esplodere di notte piccole mine con polvere da sparo per festeggiare un matrimonio (un costume nazionale), la mattina dopo furono legati insieme e "ricevettero tante frustate che non se le dimenticheranno facilmente".
Arrivò da Pindee la notizia che tre capi indigeni stavano complottando. Sir John Lawrence rispose con un messaggio in cui si ordinava che una spia partecipasse alla riunione.
Dopo il rapporto della spia, Sir John mandò un secondo messaggio: "Impiccateli". E i capi furono impiccati.
Un funzionario dell'amministrazione civile scrive da Allahbad: "Abbiamo nelle mani i poteri di vita e di morte e vi assicuriamo che li useremo senza risparmio".
Un altro, dallo stesso posto: "Non passa giorno senza che ne appendiamo da dieci a quindici (non combattenti)".
Un ufficiale scrive esultando: "Holmes li impicca venti alla volta, come in blocco".
Un altro, alludendo all'impiccagione sommaria di parecchi nativi: "Allora sì che è cominciato lo spasso".
E un terzo: "Teniamo la corte marziale in sella e ogni negro che ci capita di vedere lo appendiamo o gli spariamo".
Da Benares ci informano che trenta samindari {Signori feudali che godono dei diritti di proprietari terrieri, NdR.} sono stati impiccati per il semplice sospetto di simpatizzare con i loro connazionali, e interi villaggi sono stati incendiati per la stessa accusa.
Un ufficiale la cui lettera è riprodotta in "The London Time" dice: "I soldati europei quando si trovano di fronte ai nativi diventano diavoli".
E non si deve dimenticare che, mentre delle crudeltà degli inglesi si parla come di atti di vigore marziale, e si raccontano semplicemente, con rapidità, senza soffermarsi su particolari disgustosi, le violenze dei nativi, certamente spaventose, vengono di proposito ulteriormente esagerate. Per esempio, da chi veniva il racconto circostanziato delle atrocità commesse a Delhi e a Meerut, apparso prima su "The Times", per poi fare il giro di tutta la stampa londinese? Da un parroco codardo residente a Bangalore, nel Mysore, più di mille miglia di distanza, in linea d'aria, dalla scena dell'azione. Il resoconto ufficiale trasmesso da Delhi dimostra che l'immaginazione di un parroco inglese può concepire orrori ben più grandi anche della fantasia sfrenata di un ribelle indù.
Per la sensibilità europea il taglio del naso, delle mammelle, ecc. in una parola le orribili mutilazioni praticate dai sepoys sono naturalmente più ripugnanti del lancio di proiettili roventi sulle casupole di Canton ordinato da un segretario della Peace Society di Manchester {John Bowring, NdR}, o del rogo degli arabi stipati in caverne per ordine di un maresciallo di Francia, o del gatto a sette code che scortica vivi i soldati britannici giudicati per direttissima da una corte marziale, o di qualsiasi altro filantropico strumento usato nelle colonie penali inglesi.
La crudeltà, come ogni altra cosa, ha le sue mode, che cambiano a seconda dei tempi e dei luoghi.
Cesare, il raffinato studioso, narra candidamente di aver ordinato che fosse tagliata la mano destra a molte migliaia di guerrieri galli. Napoleone si sarebbe vergognato di fare una cosa del genere.
Egli preferiva spedire i suoi reggimenti francesi, sospetti di repubblicanesimo, a Santo Domingo, a morire di peste e per mano dei negri.
Le infami mutilazioni praticate dai sepoys ricordano una delle tante in uso nel cristiano impero bizantino, o le pene previste dal codice penale di Carlo V, o le pene inglesi per i reati di alto tradimento così come ancora riferito dal giudice Blackstone.
Agli indù, esperti di torturare sè stessi, sembrano del tutto naturali queste torture inflitte ai nemici della loro razza e della loro fede, e tanto più devono sembrare tali agli inglesi, che, soltanto pochi anni fa, usavano ancora trarre profitti dalle cerimonie in onore di Jugannath, proteggendo e assistendo ai sanguinari riti di una religione crudele.
Le frenetiche urla del "dannato vecchio «Times»", come soleva chiamarlo Cobbett, il suo far la parte di quel personaggio violento di una delle opere di Mozart che si abbandona al canto più melodioso nella prospettiva prima di impiccare il suo nemico, poi di arrostirlo, poi di squartarlo, poi di infilzarlo e infine di scuoiarlo vivo; il suo far a pezzi e brandelli la passione della vendetta, tutto questo sembrerebbe soltanto stupido se dietro il pathos della tragedia non ci fossero ben percettibili i trucchi della commedia.
"The London Times" esagera la sua parte, e non per panico. Fornisce alla commedia un personaggio che persino Molière s'era lasciato sfuggire, il Tartufo della vendetta.
Quel che egli vuole è semplicemente giustificare gli stanziamenti pubblici e difendere il governo.
Poiché Delhi non è caduta, come le mura di Gerico, al primo soffio di vento, John Bull deve essere immerso fino alle orecchie in grida di vendetta sì da fargli dimenticare che il suo governo è il responsabile del disastro provocato e delle colossali dimensioni che ha finito per assumere»
(tratto da: "India", Karl Marx; Editori Riuniti, Roma, 1993)
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