"Non siamo pacifisti. Siamo avversari della guerra imperialista per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell'interesse del socialismo."
(Vladimir Ilič Ul'janov, Lenin, 1917)

14 giugno 2010

"L’egemonia del mercato e i giovani"

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Scrive Franco Totaro:
«I fini dell’economia sono anche i nostri fini?»

Ho 33 anni, sono mamma di una bimba di quasi due. Ho lasciato il posto che occupavo in una delle tante imprese del Nord-Est in cui vivo e che non merita certo le etichette di comprensorio all’avanguardia e di realtà-traino di quest’Italia che spesso gli si sentono attribuire, dal momento che dette imprese stanno ancora in piedi grazie all’evasione
fiscale massiccia e impunita e all’aiuto/dipendenza dalle banche a cui sono tutte, chi in maggiore o minore misura, largamente indebitate. E ora sono a una svolta della mia vita, o almeno così mi auguro.
Ma la mia preoccupazione oggi è per i giovani. Una categoria tenuta “fuori dai giochi”, una risorsa preziosa della società lasciata senza voce, ignorata da una generazione adulta egoista e autoreferenziale come la nostra attuale. I giovani oggi sono catalogati sotto inutili quanto insensate categorie (Generazione MTV, Y, Next), inscatolati in luoghi comuni e cliché vuoti, presi in giro e sbeffeggiati con epiteti come il “bamboccione” di ministeriale memoria.
L’unico valore reale che gli è riconosciuto è quello di essere una precisa entità da sfruttare per il mercato, un appetibile target economico. Una società che non ama i suoi giovani è una società che non ama il futuro.


Che senso ha vivere in una società dominata da logiche aziendali del tipo “siamo tutti utili e nessuno indispensabile”? Una spietata logica utilitaristica informa ogni aspetto della nostra esistenza.
L’avidità, la legge economica di mercato sembrano oggi le uniche forze capaci di muovere il mondo. Io mi chiedo: davvero dobbiamo sotto-stare a tutto questo? Dove sta scritto? Perché? Siamo davvero i nuovi schiavi dell’era contemporanea? In una condizione di accecamento morale e politico come quella attuale vale ancora l’antico mito della caverna del caro Platone a descrivere il nostro stato: quello di ignari spettatori (e oggi mai metafora potrebbe essere più calzante di fronte allo sconfinato potere ipnotico e distorsivo del mezzo televisivo) che guardano ombre scorrere sulla parete scambiandole per la Verità/Realtà.
Un nodo mi attanaglia la gola quando guardo gli occhi di mia figlia Eva-Maria e mi chiedo che futuro le stiamo consegnando.

Vera B., Pordenone.


Sull’atmosfera nichilista che caratterizza il clima in cui vivono i giovani d’oggi mi sono espresso più volte in questa rubrica e in un mio recente libro. Se ora ritorno sull’argomento è perché lei mette giustamente in correlazione l’egemonia della legge economica del mercato con la sottrazione del futuro ai giovani, confinati in percorsi di formazione senza fine o in condizioni di lavoro precario, il più delle volte non connesso alla loro formazione.
La loro sfiducia, la loro vita più notturna che diurna, l’alcol e la droga, assunti più per anestetizzarsi che per divertirsi, sono sintomi di una crisi non tanto “esistenziale” quanto “culturale”, da riferirsi al fatto che la nostra cultura conosce come unico generatore simbolico di tutti i valori esclusivamente il denaro, da conseguire con ogni mezzo, ivi compreso lo sfruttamento del lavoro dei giovani, che non hanno alcun potere contrattuale se non quello del “prendere o lasciare”.
«L’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo», diceva Kant nel formulare il principio fondamentale della sua morale. Ma chi non è “mezzo di profitto”, sia che si tratti dell’immigrato o di uno qualunque di noi che lavora in una fabbrica o in un ufficio a qualsiasi condizione gli venga imposta, non ha diritto di cittadinanza.
E tutto questo perché l’economia globalizzata ha reso concorrenziale anche il costo del lavoro sempre più al ribasso.
Oggi i giovani vivono erodendo la ricchezza dei padri, ma non avranno ricchezza da far erodere ai loro figli, che saranno la prima generazione veramente senza futuro. Ma siccome lo sguardo dei governanti non si allunga oltre la propria biografia, di questa mancanza di futuro al momento nessuno si occupa. Invocare che l’economia non sia più egemone, ma venga subordinata alla vita delle persone, oggi ha del patetico. Ma a questo si dovrà pervenire, se non si vuole assistere a quella profezia che Spengler, Heidegger, Jaspers, Anders nel secolo scorso, con largo anticipo, andavano annunciando sotto il titolo «Tramonto dell’Occidente».

Umberto Galimberti



L'interesse che mi suscita questa lettera con annessa risposta tratta da "D", settimanale di Repubblica, scaturisce da tre punti.
Il primo si riferisce alla favola-mito del "Nord-Est realtà-traino dell'Italia".
Il secondo al fatto che determinate situazioni risultino sempre più fastidiose alla "gente comune", facendo così scadere l'alibi della "visione comunista intrisa di ideologia".
Infine, il terzo, si riferisce alla risposta del filosofo Galimberti, che rispecchia il pensiero del disilluso, di chi si abbandona e si lascia andare senza opporre resistenza allo strapotere del nichilismo, di chi non può o non vuole cercare soluzioni e s'impantana a constatare il decesso. Da questo punto di vista, e solo da questo punto di vista, paradossalmente, preferisco la logica ultimomistica della postmodernità che, perlomeno, spinge verso una reazione.
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11 giugno 2010

E, alla fine, qualcuno osa chiamarla giustizia?

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La storia del Sudafrica è la storia del dominio dell'uomo bianco sull'uomo nero, ma soprattutto è la storia del dominio imperialistico del padrone sul nullatenente.
Sull'argomento si sono scritte centinaia di migliaia di pagine, ma una domanda rimbalza nella mia testa: vi è stata giustizia?
Nel 1652 un gruppo di coloni olandesi sbarcò presso il Capo di Buona Speranza e, a nome della Compagnia olandese delle Indie Orientali, ne prese possesso. Da allora, per quasi trecentocinquanta anni, olandesi prima e inglesi poi hanno dominato, soggiogato e ridotto in schiavitù le popolazioni indigene e sfruttato le loro terre arricchendosi soprattutto con lo sfruttamento delle miniere di oro e diamanti.
Nel 1990, dopo quarant'anni di prigione, la liberazione di Nelson Mandela, uomo simbolo della lotta contro l'apatheid, ha spinto verso le trattative che hanno portato alla fine della segregazione razziale e all'inizio di un nuovo corso per la storia del Sudafrica fatto di elezioni democratiche. Ma onestamente si può parlare di giustizia quando le cosiddette "regole" sono state importate ed imposte da una potenza dominante?

Si trova un parallelo in un'altra zona del mondo. La Palestina, dove, come tutti sappiamo, col benestare della Comunità Internazionale, è stato instaurato con la forza lo statodi Israele il quale, con metodi colonialisti, ha sottomesso la popolazione esistente.
Oggi, dopo sessant'anni di occupazione abusiva e dopo aver permesso che si perpetrasse un vero e proprio genocidio nei confronti del popolo palestinese, la cosiddetta "comunità internazionale" spinge affinché si giunga al riconoscimento di un nuovo stato palestinese con la, oramai nota, offerta del "due popoli, due stati".
Ma Israele non può accettare che vengano messe a rischio le sue mire espansionistiche e anche la parte palestinese avversa tale ingiusta offerta di elemosina.
La giustizia vorrebbe la costituzione di uno stato di Palestina con, al suo interno, il riconoscimento e l'integrazione della minoranza di nazionalità israeliana. In un certo senso quel che è avvenuto in Sudafrica.
Ma le questioni non possono avere risultati paralleli, perché alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso l'impero inglese non era più lo stesso impero di inizio Novecento e perché oggi Israele è una potenza economica, politica e militare che domina e influenza non solo nella zona dove il suo stato è situato fisicamente.
Tornando al Sudafrica, si nota la difficoltà di una fazione di discendenti degli afrikaaner, i cosiddetti "orange", ad accettare la legge di un governo di sudafricani neri.
Credo che sia sufficiente questo per rilevare la totale ingiustizia di ogni sistema politico che si rifà alla, presunta, democraticità dell'imposizione borghese capitalistica.
La giustizia, nel mondo capitalistico, è figlia della prepotenza del più forte nei confronti del più debole (o peggio organizzato, o equipaggiato).
Per questo motivo non si può parlare di giustizia nel caso del Sudafrica, e in quello palestinese, fino a quando l'occupante abusivo non è stato completamente scacciato.
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