"Non siamo pacifisti. Siamo avversari della guerra imperialista per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell'interesse del socialismo."
(Vladimir Ilič Ul'janov, Lenin, 1917)

22 agosto 2011

Sevel, una lezione utile (Erman Dovis)

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In questa calda estate ai molti sara' certamente sfuggita una notizia che arriva da Chieti e che deve essere oggetto di profonda riflessione da parte dei comunisti.
Tra i comuni di Paglieta ed Atessa sorge il grande stabilimento metalmeccanico della Sevel Val di Sangro, aperto credo agli inizi degli anni Ottanta. Lo stabilimento produce furgoni per Fiat, Citroen e Peugeot, vi lavorano qualcosa come cinquemila operai provenienti non solo dall'Abruzzo. Il ciclo produttivo aziendale prevede, all'interno della fabbrica stessa, le fasi di lastratura, verniciatura, montaggio. La Sevel non è stata esclusa dal processo di riorganizzazione produttiva, che molti chiamano "svolta Marchionne", del resto tale svolta non nasce un anno fa ma ha origini ben piu' remote. Nello specifico, in questi ultimi anni abbiamo assistito ad un protocollo comportamentale ben noto: l'azienda periodicamente sostiene l'impossibilita' di reggere la sfida col mercato, e puntualmente minaccia di volta in volta, la non regolarizzazione dei precari assunti, la delocalizzazione della filiera produttiva, i licenziamenti. In cambio ovviamente si chiede una flessibilita' ormai piu che ginnica, la totale disponibilita' degli operai a reggere turni di lavoro piu' pesanti, i sabati straordinari obbligatori eccetera. Il cosiddetto "modello Pomigliano" è stato adottato senza colpo ferire, ma sembra non bastare: ad ogni vittoria di tappa il padronato, minacciando la chiusura, avanza ed impone altre richieste. In tutto cio' il sindacato vive le contraddizioni di questa epoca: si arrangia, cerca, vede, ci prova.
La Fiom Cgil si è dimostrata molto combattiva, la battaglia che da tempo porta avanti all'interno della Sevel è encomiabile.
Ma arriviamo allo snodo cruciale: a fine luglio viene firmato un accordo tra le parti sociali che prevede, dal 3 ottobre 2011, l'adozione in Sevel del nuovo famigerato sistema metrico di misurazione del lavoro, la Ergo-Uas, in cambio dell'assunzione definitiva di 150 operai a contratto precario, "previa verifica delle disponibilita' ".
Ora non serve davvero dilungarsi su un sistema metrico che imporra' ritmi frenetici, limitazioni ulteriori della velocita' di produzione, riduzioni dei gia' esigui tempi di pausa, ognuno puo' verificare di persona.
L'accordo con le parti sindacali ha visto anche la firma della Fiom Cgil, fino a pochi giorni prima assolutamente contraria ad ogni ipotesi del genere.
Le reazioni sono state sconsiderate: chi ha gridato al tradimento, chi ha invocato l'abbandono di questa rappresentanza sindacale venduta, chi propone la nascita di nuove e combattive realta' sindacali, tanto pure quanto astratte.

Costoro, essendo estranei alla classe operaia e non avendo una conoscenza del conflitto di classe, tendono a riempire il loro vuoto con idee strampalate, ammantate di una fraseologia rivoluzionaria, cercando di sostituirsi all'azione della classe.
Che la Fiom abbia firmato non mi stupisce, stupisce invece il fatto di coloro che ieri pompavano a mille il sindacato dei metalmeccanici ed oggi ululano alla luna stracciandosi le vesti.
Il ruolo del sindacato è di raccogliere, fare da sponda ad un indirizzo generale di pensiero e di lotta, e non il contrario come erroneamente è stato fatto nel caso Fiom, caricata di un peso e di una responsabilita' che non poteva portare su di se. Le contraddizioni interne, l'isolamento, ma anche il semplice fatto di operare nel suo contesto fanno si che queste situazioni accadano, non c'è da scandalizzarsi. La questione sindacale, che piaccia o no, è questione prima di tutto politica: cio' che fara' la differenza nelle lotte, sara' la maggiore acquisizione di coscienza di classe, e per questo serve Ricostruire il Partito Comunista, l'organo di educazione e guida politica, l'intellettuale collettivo diretto dalla parte cosciente e organizzata della classe operaia, che determina la linea politica fara' avanzare la comprensione di classe a stadi sempre maggiori, imponendo a Cgil, Cisl, Uil, Fiom e chi per loro di inseguire i lavoratori su piattaforme rivendicative avanzate.
E' stato cosi in passato e sara' cosi, qui non si inventa niente come pensano taluni .
Riflettiamo insieme su questi aspetti, su questa esperienza che ci arriva da Chieti perchè cosi potremo meglio codificare e comprendere situazioni simili che inevitabilmente si verificheranno.
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19 agosto 2011

Mi permetto una sorta di analisi (Lurtz)

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"Al primo tentativo fascista deve seguire una rapida, secca spietata risposta degli operai e questa risposta deve essere tale che il ricordo ne sia tramandato fino ai pronipoti dei signori capitalisti"(A. Gramsci)


Premettendo che, pur rifiutando questa impostazione, non posso negare di aver subito un'influenza di tipo deterministico. In base a questo, ritengo che oggi i lavoratori abbiano qualcosa da perdere rispetto ai proletari nullatenenti di Marx e, perciò, non credo che siano tempi maturi per parlare di "rivoluzione".
Detto questo, se il compito dei comunisti si riducesse ad essere quello di attendere la "fine del mondo (capitalistico)", non avrebbe senso l'esistenza di partiti, di lotte, eccetera. Ed è qui che entra in gioco la dialettica, che, per me, sovrasta la visione deterministica.
Perchè la realtà è sì un qualcosa di oggettivo, ma non è mai un oggettivo eterno, cristallizzato, bensì in continuo movimento. Se fosse altrimenti, le condizioni di vita del proletariato sarebbero le stesse di cento anni fa. Invece la realtà ci mostra una situazione ben diversa.
Eviterò di descrivere la storia del movimento operaio, non mi pare ve ne sia la necessità. Se volessimo fare i puristi (scioccamente, aggiungerei), diremmo che il proletariato del Ventunesimo secolo è formato solo da immigrati extracomunitari. Ma invece, dato che siamo dialettici, diremo che oggi anche gli impiegati, o comunque la maggior parte di essi e, probabilmente, insieme a "partite iva" e micro bottegai, sono da considerarsi proletariato.
Bene, abbiamo visto che, in modo molto semplicistico, le situazioni mutano e conseguentemente dovranno mutare gli approcci alle questioni. Perché se determinate divisioni si assottigliano, anzi scompaiono, le rivendicazioni particolari mutano a loro volta. Ovvero, in parole povere, vi è la necessità di lottare su diversi fronti che però rimandano ad un preciso obiettivo generale: l'abbattimento della società capitalistica.
La proletizzazione dei ceti medi che si sta verificando in Europa è una necessità (ciclica) del sistema capitalistico, e la crisi in corso è il metodo per adempiere a tale scopo ("Crisi= soluzione", attenzione a non confondersi con "Crisi=Problema", in caso contrario perché continuare a sostenere un modello perdente?).
Questo dovrebbe far capire che la lotta contro il capitalismo non può essere che anzitutto contro l'imperialismo, statunitense in primo luogo e poi gli altri a seguire. Perché è laggiù che vengono stabilite le regole a cui sottostare, e perché il capitale finanziario americano si regge (anche) succhiando grandemente in Occidente.
Per via di una inesistente politica unitaria europea, i problemi si riversano inevitabilmente sui singoli stati. La conseguenza è la comparsa di manovre-soluzioni a dir poco folli.

A questo punto, viene da domandarsi: e adesso, cosa facciamo?
Molte proposte sono in corso di sviluppo, e tra queste, quella che pare stia prendendo più corpo, è quella di Rifondazione Comunista, ossia quella che si riferisce alla Patrimoniale (Cfr. dichiarazione Ferrero).
Indubbiamente un buon inizio, ,ma la mia impressione è che sia un demagogico tentativo di correzione. Insomma, per essere brutali, è, a mio parere, una proposta di tipo socialdemocratico. Come si può chiedere a un governo (e quando parlo di "governo" includo anche la cosiddetta "opposizione"), che mira a mantenere intatti i privilegi della grande borghesia, di tassare proprio quello che questi vogliono proteggere?
Io non ho soluzioni, mi faccio delle domande e spero di trovare risposte. In questa direzione, vedo che il partito comunista greco (KKE) fa una proposta che mi pare sia quella più utile: uscire dall'Unione Europea. Uscire, ovvero, dalla zona di sottomissione imperiale.
Ritengo, però, che la sola Grecia non sia in grado di accollarsi un onere simile. Penso anche che però, se tale volontà fosse avallata da tutti quegli stati denominati (insolentemente!) PIGS: Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna. la cosa desterebbe, da un lato, forti preoccupazioni e, dall'altro, magari un ripensamento anche da parte di altri, come l'Italia ad esempio.
Cosa non semplice nemmeno questa, ma allora cosa fare?
Oggi come oggi, avere come obiettivo primario quello di rientrare in parlamento non può che essere definito velleitario, a meno di non stringere alleanze (con posizione di sfavore, ovviamente) con PD e similastri. Ossia con gli stessi soggetti che hanno cacciato i comunisti dal parlamento e, tra le altre varie oscenità, gli stessi che hanno "creato" e divulgato il precariato.
Alcuni fessacchiotti, addirittura evocano "rivoluzioni" (improbabili!), ma è evidente che o non sanno di cosa parlano o hanno una percezione della realtà completamente distorta.
L'unica soluzione a breve, a mio parere, sta nel riorganizzare le forze in campo.
Accantonare (momentaneamente) determinati annosi attriti e lavorare tutti insieme per manifestazioni di piazza serie, dure, massicce. Ricostituire un servizio d'ordine che impedisca l'infiltrazione di provocatori; cacciare a pedate gli "sfasciatori di vetrine"; portare nelle piazze i lavoratori (tutti!); fare in modo che si evitino "passerelle" di leaders; imporre ai governi, alle finte opposizioni e a tutti quelli che lavorano contro, il volere del popolo, se necessario anche con la forza ma mai col modo del teppista da stadio (cfr. "sfasciatori di vetrine"). Lasciare da parte per un momento le icone dei grandi marxisti, quando vengono "tirati fuori dal cilindro" solo per intralciare le collaborazioni. Arrivare a pensare seriamente alla formazione di un nucleo "misto" da portare in parlamento, così da non dover sottostare ai ricatti degli anticomunisti di sinistra.
Contemporaneamente, guidare e accompagnare le manifestazioni coi compagni greci, portoghesi, spagnoli, eccetera.
Perché una domanda aleggia: dove sono finiti i comunisti? Non se ne parla, esistono ancora?
Dobbiamo riappropriarci del nostro ruolo storico. 

Basta sentir parlare di NoTav, popolo Viola, Fiom. Ricominciamo a far parlare di comunisti che "guidano", non che si accodano a NoTav, Fiom, eccetera. Si lascino perdere le zuffe su chi è più e chi meno presente. Insomma, diciamocelo chiaro, si deve fare in modo che i lavoratori quando pensano al partito comunista o ai comunisti in generale non abbiamo come riferimento un Ferrero, un Ferrando, un Diliberto, un Rizzo, eccetera. Ai lavoratori non interessa cosa sia e a cosa serva il centralismo democratico, ad esempio; essi vogliono poter contare su un gruppo organizzato, e non aspettare l' "umore" del capo.
Oggi c'è bisogno di unità. Solo questo conta in questo momento, il resto è impedimento!
Non sottovalutiamo questo fatto, è l'unione che fa la forza. Gli interessi personali non ci appartengono, e chi li persegue deve essere cacciato a pedate.
Chi scrive non è nessuno, non conta nulla. La sua speranza è di invogliare alla riflessione sulla necessità di abbandonare il miraggio del cadreghino e concentrarsi sulla realtà, egli non ha preferenze per questo o per quello. Il suo unico interesse è vedere una forza comunista compatta che non si perda in fesserie e che risponda colpo su colpo al nemico di classe.
Mi si permetta la trivialità, ma i lavoratori si sono rotti i coglioni di sentir parlare di cose che non li riguardano, ed è perciò che si spostano sempre più a destra. L'occasione di riportarli sui "nostri" binari c'è, ma bisogna saperla cogliere.
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9 agosto 2011

Un tentativo di riflessione, elementare, su lavoro produttivo e lavoro improduttivo (Lurtz)

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«La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore.
L'operaio non produce per sé, ma per il capitale. Quindi non basta più che l'operaio produca in genere. Deve produrre plusvalore. E' produttivo solo quell'operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all'autovalorizzazione del capitale. Se ci è permesso scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l'imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d'istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime all'operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale. Dunque, essere operaio produttivo non è una fortuna ma una disgrazia» (Il Capitale, Libro I, Cap. 14: “Plusvalore assoluto e plusvalore relativo”).


Con un senso di disgusto molto alto, qualche giorno fa, guardavo su un canale del digitale terrestre, La5 mi pare, un pezzo di programma di cucina importato da qualche paese anglosassone.
Infastidito non perchè si cucinassero pietanze orribili, tutt'altro, ma perché non si capiva molto di cosa cucinassero e perché il conduttore, un noto chef probabilmente auanaganese, insultava e trattava male chiunque tranne i clienti del finto ristorante.
pare si trattasse di una specie di reality a cui partecipano un gruppo di amici o una famiglia, e lo scopo è obbedire ciecamente agli ordini, e alle umiliazioni, dello chef al fine di preparare un menù gradito ai clienti.
Tralasciando il fastidio che mi provoca l'atteggiamento di questo coglionazzo con la casacca da cuoco, vorrei approfondire una questione che mi pare interessante.



A mio parere, la cucina, e tutto quello che le gira intorno, dalla scelta degli ingredienti a quella degli oggetti per cucinarli e servirli, la scelta delle bevande da abbinare, il senso di comunità nello stare intorno ad una tavola, ma anche il preparare la tavola e dividersi i compiti fino a consumare il pasto per goderne tutti, si può riassumere in una parola: "convivialità"; e ritengo sia una cosa sacra, da preservare.
In questo senso, forse i momenti più belli che ricordo sono quelli che si riferiscono ad un periodo in cui, insieme ad altri tre amici, una volta alla settimana, con la scusa di una partita a scopone scientifico, ci si riuniva a casa dell'unico che potesse ospitarci e ci si faceva la classica mangiata a base di pesce. Al mattino, il nostro ospite, che si incaricava di cucinare, andava a fare la spesa; noi lo raggiungevamo nel tardo pomeriggio, perché tutti impegnati a lavorare. Tutti i passaggi venivano svolti in assoluta comunione. Chi preparava la tavola, chi puliva il pesce, chi tagliava il pane, eccetera eccetera. Il tutto discorrendo di politica o di filosofia, tra un bicchier di vino e un assaggio. Poi ci si sedeva per consumare la cena e alla fine si sparecchiava e si lavavano le stoviglie. Senza fretta, senza distinzione tra "tempo utile" e "tempo inutile".
"La prova del cuoco", "Cotto e mangiato", "Cuochi e fiamme", sono solo alcuni tra i programmi dedicati alla cucina trasmessi dalle varie emittenti televisive.
Dopo più di un decennio in cui la Fesseria l'ha fatta da padrone con migliaia di ore dedicate ad approfondimenti fuffeschi su oroscopo e gossip, sembra che si sia trovato un filone di (quasi) utilità. Sembra infatti che vi sia una volontà pedagogica a guidare la composizione dei palinsesti e quindi fioccano ovunque trasmissioni che dedicano ampio spazio al meteo e altre esclusivamente alla cucina. Non casualmente utilizzo il termine "pedagogia", perchè ritengo che esista proprio l'intento di educare sull'ottimizzazione del tempo "sprecato".
A prima vista, i programmi di cucina, hanno la sembianza di cortesia a favore delle migliaia di impiegati, operai, single che non hanno tempo o difettano in volontà o fantasia e anche per casalinghe o cuochi provetti. La mia conclusione è diversa. Li vedo come una sorta di "indirizzazione" utile ai fini della società capitalistica. Una società, ovvero, in cui il tempo "utile" è solo quello entro il quale si produce e dove il tempo "inutile", ossia quello entro il quale ognuno di noi si dedica alla propria vita e al proprio piacere, deve essere ottimizzato al massimo. E non stupisce che si studi un metodo simpatico che permetta di cibarsi "umanamente" e impiegando meno tempo possibile.
Primo, secondo e dolce in meno di un'ora, cibi in scatola presentati con fantasia, una sfoglia di pasta pronta in pochi minuti, eccetera eccetera.
del resto, non è una novità quella di sfruttare gli spazi di tempo "buchi". Pensiamo a quanti durante la pausa pranzo vanno in palestra o fanno la spesa al supermercato e così via. Poi, magari, escono dall'ufficio alle sette di sera, ma non se ne preoccupano perché non hanno nient'altro da fare che.....dedicarsi alla propria vita!
Si badi che qui il complotto non c'entra nulla. Si tratta di un "movimento" assolutamente naturale: si presenta un problema o una difficoltà e l'Uomo cerca una soluzione.Niente di più, niente di meno. La questione è anzitutto rilevare il livello di sottomissione mentale alle regole del mondo in cui si vive e poi denunciare il fatto che, invece di cercare soluzioni definitive, i "guardiani del palazzo" ne offrono sempre e solo di tipo riparatorio.
Uno degli obiettivi che, secondo me, l'essere umano che vive in un contesto di civiltà industriale o post-industriale deve perseguire è di riappropriarsi del proprio tempo. Perché il tempo non appartiene al padrone ma ad ogni singolo individuo, il quale deve poterne disporre a proprio piacere (quando si parla di "giornata lavorativa", si intende il tempo che il padrone estorce con la forza al lavoratore, non si daba al fatto che NON esistono molteplici giornate all'interno della stessa; esiste UNA sola giornata, quindi il tempo rimanente non è considerato positivo, nel senso di utile alla produzione).
Tutte le fesserie sulla necessità di produrre sempre di più, sono fesserie appunto. L'equazione è semplice da capire.
Se tutti producono e tutti consumano, sarà sufficiente produrre meno e consumare meno per vivere da esseri umani. Ma dato che così non è, ossia in realtà una grande maggioranza produce e tutti consumano; la piccola parte che non produce ma consuma costringe la grande maggioranza, con la forza, a produrre di più di quello che ha bisogno.
E il discorso vale anche nel caso della cucina. Infatti, quello del tempo, non è un problema che riguarda le classi più abbienti le quali possono disporre di cuochi, camerieri, maggiordomi e inservienti vari che provvedono a tutto lasciando "l'onere" di ospitare alle padrone di casa.
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8 agosto 2011

"La Cina da impero a nazione" (spot a cura di Lurtz)

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Seppur con colpevole ritardo, è comunque un piacere segnalare e consigliare la lettura dell'ultimo titolo del nostro Kim (Diego Angelo Bertozzi): "La Cina da impero a nazione. Dalle guerre dell'oppio alla morte di Sun Yat-sen (1840-1925)."
Chi fosse interessato ad approfondire può leggere diverse recensioni ai seguenti links (Rivista Eurasia, Rivista Strategos, Archivio Storico, BSnews)
E chi fosse interessato all'acquisto può visitare il blog e seguire le dritte.
Nient'altro da dire, se non complimenti al Bertozzi e viva la Cina!
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