"Non siamo pacifisti. Siamo avversari della guerra imperialista per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell'interesse del socialismo."
(Vladimir Ilič Ul'janov, Lenin, 1917)

27 ottobre 2009

Piersilvio...Pierferdi...Pierluigi...pier...favore, basta!

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Per carità, non che ci si aspettasse qualcosa di diverso e infatti, sulla Stampa di oggi, Giuseppe Berta ci ricorda che le priorità del governo, o più in generale di un qualsiasi Stato borghese, sono altre che non la tutela dei lavoratori.
La priorità è la competitività, parafrasando il titolo "Priorità per essere competitivi".
Sembra oramai diventata una litania demagogica ricordare che ogni giorno sul posto di lavoro muiono sette (7!!!) persone o che la chiusura di un'azienda non è una "disgrazia" solo per chi è proprietario ma soprattutto per chi ci perde la pelle in anni di sfruttamento.
Eppure, volenti o nolenti, è questa la realtà!
La cosa più interessante che ci ricorda il signor Berta è che il prossimo anno scadranno i Titoli di Stato, per un ammontare di circa 100 miliardi di euro.
Il governo intanto prova a lanciare segnali positivi ai piccoli padroni, annunciando la soppressione dell'Irap. Ma sappiamo bene da quali tasche usciranno quei denari che verranno a mancare. Da quelle stesse tasche che, se si continua con politiche protettive nei confronti dell'imprenditoria rendendola sempre più forte dal punto di vista del potere ricattatorio nei confronti dei lavoratori, saranno "desolatamente" vuote.
Infine, il "popppolo di Sinistra" aspetta con ansia il Verbo del nuovo Messia Bersani, il quale, perfettamente in linea con le aspettative di chi non ha mai creduto ai clown socialdemocratici, si preoccupa anzitutto di tastare il polso ai suoi "veri" elettori: gli artigiani delle piccole imprese (...a Prato).
Mi sembra che ce ne sia d'avanzo per smetterla di sbrodolare minchiate sul tema "Primarie", o no?
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20 ottobre 2009

Contro l'infame opportunismo. (a cura di Lurtz)

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L'opportunista è come un cancro. Cresce dentro e quando ti accorgi della sua presenza è già troppo tardi.
Perciò la prevenzione è d'obbligo!
A tal proposito, torna utile un estratto da "Stato e rivoluzione".

La polemica di Kautsky con Pannekoek

Pannekoek, quando entrò in polemica con Kautsky, era uno dei rappresentanti della tendenza "radicale di sinistra", che contava nelle sue file Rosa Luxemburg, Karl Radek e altri, i quali, difendendo la tattica rivoluzionaria, concordavano nel riconoscere che Kautsky stava passando a una posizione di "centro", priva di princípi, oscillante tra il marxismo e l'opportunismo. L'esattezza di questa valutazione è stata pienamente dimostrata dalla guerra, nel corso della quale la tendenza detta di "centro" (falsamente chiamata marxista) o "kautskiana" si è rivelata in tutta la sua rivoltante meschinità.
In un articolo, in cui si occupa del problema dello Stato, L'azione di massa e la rivoluzione [nota 1] (Neue Zeit, 1912, XXX, 2), Pannekoek definiva la posizione di Kautsky come un "radicalismo passivo", un "teoria dell'attesa inerte". "Kautsky non vuol vedere il processo della rivoluzione" (pg. 616). Ponendo in tal modo la questione Pannekoek affronta l'argomento che ci interessa sui compiti della rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato.

"La lotta del proletariato - egli scriveva - non è soltanto una lotta contro la borghesia per il potere dello Stato; è anche una lotta contro il potere dello Stato... La rivoluzione proletaria consiste nell'annientare gli strumenti di forza dello Stato e nell'eliminarli [letteralmente: dissolverli, Auflösung] mediante gli strumenti di forza del proletariato... La lotta cessa soltanto quando, raggiunto il risultato finale, l'organizzazione dello Stato è completamente distrutta. L'organizzazione della maggioranza prova la sua superiorità annientando l'organizzazione della minoranza dominante" (pg. 548).

Le formule con cui Pannekoek riveste le sue idee sono piene di gravi difetti. Ma l'idea è tuttavia chiara ed è interessante vedere in che modo Kautsky ha cercato di confutarla.

"Finora, egli dice, l'opposizione tra i socialdemocratici e gli anarchici consisteva nel fatto che i primi volevano conquistare il potere dello Stato, i secondi distruggerlo. Pannekoek vuole l'uno e l'altro" (pg. 724).

Se l'esposizione di Pannekoek difetta di chiarezza e di concretezza (per non parlare degli altri difetti del suo articolo che non si riferiscono al tema qui discusso), Kautsky da parte sua affronta proprio il principio essenziale del problema accennato da Pannekoek e in questa questione essenziale di principio egli abbandona completamente le posizioni del marxismo per passare del tutto all'opportunismo. La distinzione che egli stabilisce tra socialdemocratici e anarchici è totalmente sbagliata; il marxismo è qui assolutamente snaturato e degradato.
I marxisti si distinguono dagli anarchici in questo:
1. i primi, pur ponendosi l'obiettivo della soppressione completa dello Stato, non lo ritengono realizzabile se non dopo la soppressione delle classi per opera della rivoluzione socialista, come risultato dell'instaurazione del socialismo che porta all'estinzione dello Stato; i secondi vogliono la completa soppressione dello Stato dall'oggi al domani, senza comprendere quali condizioni la rendano possibile;
2. i primi proclamano la necessità per il proletariato, dopo ch'esso avrà conquistato il potere politico, di distruggere completamente la vecchia macchina statale e di sostituirla con una nuova, che consiste nell'organizzazione degli operai armati, sul tipo della Comune; i secondi, pur reclamando la distruzione della macchina statale, si rappresentano in modo molto confuso con che cosa il proletariato la sostituirà e come utilizzerà il potere rivoluzionario; gli anarchici rinnegano persino qualsiasi utilizzazione del potere dello Stato da parte del proletariato rivoluzionario, la sua dittatura rivoluzionaria;
3. i primi vogliono che il proletariato si prepari alla rivoluzione utilizzando lo Stato moderno; gli anarchici sono di parere contrario.
In questa discussione è Pannekoek che rappresenta il marxismo, contro Kautsky, proprio Marx infatti ha insegnato che il proletariato non può conquistare puramente e semplicemente il potere statale, - nel senso che il vecchio apparato dello Stato passi in nuove mani, - ma deve spezzare, demolire questo apparato e sostituirlo con uno nuovo.
Kautsky abbandona il marxismo per l'opportunismo; nei suoi scritti infatti scompare appunto questa distruzione della macchina statale, cosa assolutamente inammissibile per gli opportunisti; egli lascia a questi ultimi una scappatoia che permette loro di interpretare la "conquista" del potere come un semplice conseguimento della maggioranza.
Per nascondere questa sua deformazione del marxismo, Kautsky si comporta da scolastico e ricorre a una "citazione" dello stesso Marx. Nel 1850 Marx parlava della necessità di una "decisissima centralizzazione del potere nelle mani dello Stato" [2]. E Kautsky trionfante domanda: vuole forse Pannekoek distruggere il "centralismo"?
E' un semplice giuoco di prestigio che ricorda quello di Bernstein, con la sua identificazione di marxismo e proudhonismo a proposito dell'idea della federazione da opporre al centralismo.
La "citazione" di Kautsky cade a proposito come i cavoli a merenda. Il centralismo è possibile sia con la vecchia macchina dello Stato, che con la nuova. Se gli operai uniscono volontariamente le loro forze armate, si avrà del centralismo, ma questo centralismo sarà fondato sulla "completa distruzione" dell'apparato statale centralista, dell'esercito permanente, della polizia, della burocrazia. Kautsky si comporta in modo assolutamente disonesto eludendo le osservazioni ben note di Marx e di Engels sulla Comune per andare a cercare una citazione che non ha niente a che fare con la questione.

"...Vuol forse Pannekoek sopprimere le funzioni statali dei funzionari? - continua Kautsky. - Ma noi non possiamo fare a meno dei funzionari né nel partito né nei sindacati, senza parlare delle amministrazioni dello Stato. Il nostro programma richiede non l'eliminazione dei funzionari dello Stato, ma la loro elezione da parte del popolo... Non si tratta ora per noi di sapere quale forma assumerà l'apparato amministrativo nello "Stato futuro", ma di sapere se la nostra lotta politica distruggerà [letteralmente: dissolverà, auflöst] il potere statale prima che noi l'abbiamo conquistato... [il corsivo è di Kautsky]. Quale ministro coi suoi funzionari potrebbe essere distrutto?" Ed enumera i ministri dell'Istruzione pubblica, della Giustizia, delle Finanze, della Guerra. "No, nessuno dei ministeri attuali sarà soppresso dalla nostra lotta politica contro il governo... Lo ripeto, per evitare malintesi: non si tratta di sapere quale forma la socialdemocrazia vittoriosa darà allo "Stato futuro", ma come la nostra opposizione trasforma lo Stato attuale" (pg. 725).

E' un vero giuoco dei bussolotti. Pannekoek poneva precisamente il problema della rivoluzione. Il titolo del suo articolo e i brani citati lo dicevano chiaramente. Saltando alla questione dell' "opposizione" Kautsky non fa che sostituire al punto di vista rivoluzionario il punto di vista opportunista. Ne risulta quindi: adesso, opposizione; in quanto a ciò che bisognerà fare dopo la conquista del potere, si vedrà poi. La rivoluzione scompare... E' proprio quello che occorre agli opportunisti.
Non è dell'opposizione né della lotta politica in generale che si tratta: si tratta della rivoluzione. La rivoluzione consiste nel fatto che il proletariato distrugge l'"apparato amministrativo" e tutto l'apparato dello Stato per sostituirlo con uno nuovo, costituito dagli operai armati. Kautsky rivela una "venerazione superstiziosa" per i "ministeri"; ma perché questi non potrebbero essere sostituiti, per esempio, da commissioni di specialisti presso i Soviet, sovrani e con pieni poteri, dei deputati operai e soldati?
L'essenziale non è affatto di sapere se rimarranno i "ministeri" o se saranno sostituiti da "commissioni di specialisti" o da altre istituzioni: questo non ha assolutamente nessuna importanza. La questione essenziale è di sapere se la vecchia macchina statale (legata con mille fili alla borghesia e impregnata di spirito burocratico e conservatore) sarà mantenuta oppure distrutta e sostituita con una nuova. La rivoluzione non deve consistere nel fatto che la nuova classe comandi o governi per mezzo della vecchia macchina statale, ma che, dopo averla spezzata, comandi e governi per mezzo di una macchina nuova: è questa l'idea fondamentale del marxismo che Kautsky fa sparire o non ha assolutamente capito.
La sua domanda a proposito dei funzionari mostra in modo evidente ch'egli non ha capito né gli insegnamenti della Comune né la dottrina di Marx. "Noi non possiamo fare a meno dei funzionari né nel partito né nei sindacati"...
Non possiamo fare a meno dei funzionari in regime capitalistico, sotto il dominio della borghesia. Il proletariato è oppresso e le masse lavoratrici sono asservite dal capitalismo. In regime capitalistico, la democrazia è ristretta, compressa, monca, mutilata, da tutto l'ambiente creato dalla schiavitù del salario, dal bisogno e dalla miseria delle masse. Per questo, e solo per questo, nelle nostre organizzazioni politiche e sindacali i funzionari sono corrotti (o, più esattamente, hanno tendenza a esserlo) dall'ambiente capitalistico e manifestano l'inclinazione a trasformarsi in burocrati, cioè in persone privilegiate, staccate dalle masse e poste al di sopra di esse.
Qui è l'essenza del burocratismo; e fino a quando i capitalisti non saranno stati espropriati, fino a quando la borghesia non sarà stata rovesciata, una certa "burocratizzazione" degli stessi funzionari del proletariato è inevitabile.
Secondo Kautsky risulta dunque che, poichè vi saranno impiegati eletti, vuol dire che anche in regime socialista ci saranno dei funzionari, ci sarà la burocrazia! Ma è proprio questo che è falso. Attraverso appunto l'esempio della Comune, Marx dimostrò che i detentori di funzioni pubbliche cessano, in regime socialista, di essere dei "burocrati" dei "funzionari" nella misura in cui viene introdotta, oltre all'eleggibilità, anche la loro revocabilità in ogni momento, e ancora, si riduce il loro stipendio al salario medio di un operaio e ancora si sostituiscono gl'istituti parlamentari con istituti "di lavoro, cioè esecutivi e legislativi allo stesso tempo".
In fondo tutta l'argomentazione di Kautsky contro Pannekoek, e particolarmente il suo magnifico argomento sulla necessità dei funzionari nelle organizzazioni sindacali e di partito, provano che Kautsky ripete i vecchi "argomenti" di Bernstein contro il marxismo in generale. Nel suo libro Le premesse del socialismo, il rinnegato Bernstein si scaglia contro l'idea della democrazia "primitiva", contro quello ch'egli chiama "democratismo dottrinario": mandati imperativi, funzionari non rimunerati, rappresentanza centrale senza poteri, ecc.
Per provare l'inconsistenza di questo sistema democratico "primitivo", Bernstein invoca l'esperienza delle trade-unions inglesi, quale è interpretata dai coniugi Webb. Nei settant'anni del loro sviluppo, le trade-unions, che si sarebbero sviluppate "in piena libertà" (pg. 137 ed. tedesca), si sarebbero convinte appunto della inefficacia del sistema democratico primitivo e l'avrebbero sostituito con quello abituale: il parlamentarismo unito al burocratismo.
In realtà le trade-unions non si sono sviluppate "in piena libertà", ma in piena schiavitù capitalistica, nella quale, certo, "non si può fare a meno" di una serie di concessioni al male imperante, alla violenza, alla menzogna, all'esclusione dei poveri dagli affari di amministrazione "superiore". In regime socialista rivivranno necessariamente molti aspetti della democrazia "primitiva", perchè per la prima volta nella storia delle società civili la massa della popolazione si eleverà a una partecipazione indipendente, non solo nelle votazioni e nelle elezioni, ma nell'amministrazione quotidiana. In regime socialista tutti governeranno, a turno, e tutti si abitueranno ben presto a far sí che nessuno governi.
Col suo geniale spirito critico e analitico Marx vide nei provvedimenti pratici della Comune quella svolta che gli opportunisti temono tanto e, per viltà, si rifiutano di riconoscere perchè rifuggono dal rompere definitivamente con la borghesia, e che anche gli anarchici si rifiutano di vedere, o perchè sono troppo imprudenti, o in generale perchè non comprendono le condizioni delle trasformazioni sociali di massa. "Non bisogna nemmeno pensare a distruggere la vecchia macchina statale; che cosa diverremmo senza ministeri e senza funzionari": così ragiona l'opportunista imbevuto di spirito filisteo e che, in fondo, non solo non crede alla rivoluzione e alla sua potenza creatrice, ma ha di essa una paura mortale (come i nostri menscevichi e i nostri socialisti-rivoluzionari).
"Bisogna pensare unicamente alla distruzione della vecchia macchina statale; è inutile approfondire gli insegnamenti concreti delle rivoluzioni proletarie passate e analizzare con che cosa e come sostituire ciò che si distrugge": così ragiona l'anarchico (il migliore degli anarchici, naturalmente, e non quello che, al seguito dei signori Kropotkin e compagni, si trascina dietro la borghesia); e l'anarchico arriva in tal modo alla tattica della disperazione, e non al lavoro rivoluzionario risoluto, inesorabile, che però al tempo stesso si pone dei compiti concreti e tiene conto delle condizioni pratiche del movimento delle masse.
Marx ci insegna ad evitare questi due errori; ci insegna a dar prova di illimitato coraggio nel distruggere tutta la vecchia macchina statale e ci insegna al tempo stesso a porre il problema in modo concreto: in poche settimane, la Comune potè incominciare a costruire una nuova macchina statale proletaria; ed ecco i provvedimenti da essa presi per realizzare una democrazia più perfetta e sradicare la burocrazia. Impariamo dunque dai comunardi l'audacia rivoluzionaria, cerchiamo di vedere nei loro provvedimenti pratici un abbozzo dei provvedimenti praticamente urgenti e immediatamente realizzabili e arriveremo allora, seguendo questa strada, alla completa distruzione della burocrazia.
La possibilità di questa distruzione ci è garantita dal fatto che il socialismo ridurrà la giornata di lavoro, eleverà le masse a una vita nuova e metterà la maggioranza della popolazione in condizioni tali da permettere a tutti, senza eccezione, di adempiere le "funzioni statali", ciò che porta in ultima analisi alla completa estinzione di qualsiasi Stato in generale.

"...Il compito dello sciopero di massa - continua Kautsky - non può essere di distruggere il potere statale, ma soltanto di indurre il governo a fare delle concessioni su una determinata questione o di sostituire un governo ostile al proletariato con un governo che gli vada incontro [entgegenkommende] ...Ma mai, in nessun caso, ciò" (cioè la vittoria del proletariato su un governo ostile) "può portare alla distruzione del potere statale, il risultato non può essere che un certo spostamento [Verschiebung] nel rapporto delle forze all'interno del potere statale... L'obiettivo della nostra lotta politica rimane dunque, come per il passato, la conquista del potere statale mediante il conseguimento della maggioranza in Parlamento e della trasformazione del Parlamento in padrone del governo" (pgg. 726, 727, 732).

Questo è già purissimo e banalissimo opportunismo, la rinuncia di fatto alla rivoluzione, pur riconoscendola a parole. Il pensiero di Kautsky non va oltre un "governo che vada incontro al proletariato", ed è un passo indietro verso il filisteismo in rapporto al 1847, anno in cui il Manifesto del Partito comunista proclamava "l'organizzazione del proletariato in classe dominante".
Kautsky sarà costretto a realizzare l'" unità", che gli sta tanto a cuore, con gli Scheidemann, i Plekhanov, i Vandervelde, tutti unanimi nel lottare per un governo "che vada incontro al proletariato".
Quanto a noi, noi romperemo con questi rinnegati del socialismo e lotteremo per la distruzione di tutta la vecchia macchina dello Stato affinchè il proletariato armato diventi esso stesso il governo. Sono due cose del tutto diverse.
Kautsky sarà costretto a rimanere nella piacevole compagnia dei Legien e dei David, dei Plekhanov, dei Potresov, degli Tsereteli e dei Cernov, che sono pienamente d'accordo nel lottare per uno "spostamento nel rapporto delle forze all'interno del potere dello Stato", per il "conseguimento della maggioranza in Parlamento e della trasformazione del Parlamento in padrone del governo", nobilissimo obiettivo che può essere completamente accettato dagli opportunisti e che non esce per nulla dal quadro della repubblica borghese parlamentare.
Quanto a noi, noi romperemo con gli opportunisti; e il proletariato cosciente sarà tutto con noi nella lotta, non per uno "spostamento nel rapporto delle forze", ma per il rovesciamento della borghesia, per la distruzione del parlamentarismo borghese, per una repubblica democratica sul tipo della Comune o della repubblica dei Soviet dei deputati operai e soldati, per la dittatura rivoluzionaria del proletariato.
Nel socialismo internazionale vi sono tendenze ancora più a destra di quella di Kautsky: la Rivista mensile socialista in Germania (Legien, David, Kolb e molti altri, compresi gli scandinavi Stauning e Branting); i jauressisti e Vandervelde in Francia e nel Belgio; Turati, Treves e gli altri rappresentanti della destra nel Partito socialista italiano; i fabiani e gli "indipendenti" (il "partito operaio indipendente" è sempre stato, in realtà, dipendente dai liberali) in Inghilterra e tutti gli altri. Tutti questi signori, che hanno una parte assai notevole e molto spesso preponderante nell'attività parlamentare e nella stampa del partito, respingono apertamente la dittatura del proletariato e rivelano un evidente opportunismo. Per essi la "dittatura" del proletariato è "in contraddizione" con la democrazia! In fondo niente di serio li distingue dai democratici piccolo-borghesi.
Abbiamo quindi diritto di concludere che la Seconda Internazionale, nell'immensa maggioranza dei suoi rappresentanti ufficiali, è completamente caduta nell'opportunismo. L'esperienza della Comune è stata non soltanto dimenticata ma travisata. Invece di infondere nelle masse operaie la convinzione che si avvicina il momento in cui esse dovranno agire e spezzare la vecchia macchina statale, sostituirla con una nuova e fare del loro dominio politico la base della trasformazione socialista della società, si è inculcato in esse la convinzione contraria, e la "conquista del potere" è stata presentata in modo tale che mille brecce rimanevano aperte all'opportunismo.
La deformazione e la congiura del silenzio intorno al problema dell'atteggiamento della rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato non potevano mancare di esercitare un'immensa influenza, in un momento in cui gli Stati, muniti di un apparato militare rafforzato dalle competizioni imperialiste, sono diventati dei mostri militari che mandano allo sterminio milioni di uomini per decidere chi, tra l'Inghilterra e la Germania, tra questo o quel capitale finanziario, dominerà il mondo. [3]

Note
1. Massenaktion und Revolution. In polemica contro questo articolo Kautsky scrisse sulla stessa rivista l'articolo Die neue Taktik (La nuova tattica), al quale Lenin si riferisce più avanti.
2. K. Marx-F. Engels, Indirizzo del Comitato centrale della Lega dei comunisti, in Il partito e l'Internazionale, cit., pg. 96.
3. Nel manoscritto segue: "Capitolo VII. L'esperienza delle rivoluzioni russe del 1905 e del 1917. Il tema indicato in questo titolo è talmente vasto che gli si potrebbe e dovrebbe dedicare volumi. Nel presente opuscolo dovremo naturalmente limitarci agli insegnamenti più importanti fornitici dall'esperienza e che riguardano direttamente i compiti del proletariato nella rivoluzione, nei confronti del potere dello Stato". (Il manoscritto è interrotto a questo punto.)
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16 ottobre 2009

Giovedì gnocchi, venerdì pesce, sabato sciopero.....(di Lurtz)

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La parola di oggi, ma più che una semplice parola è una sensazione, è, tanto per cambiare, disgusto.
Ammetto di essere un po' rompicoglioni, ma nemmeno tanto. E' che quando penso a certe cose mi si rivolta lo stomaco e non riesco a stare zitto, il boccone non va giù, non basta un tozzo di mollica. La spina rimane incastrata.

Non sapevo che stamattina ci sarebbe stata, qui a Torino, una manifestazione degli studenti contro la Riforma Gelmini e l'ho scoperto quando, poco dopo le dieci, ho sentito musica ad alto volume e il vociare tipico dei cortei. Poi sul giornale cittadino (La Busiarda, detta anche La Stampa), ho letto che sul camion-sound ci sarebbe stato anche "Zulù" dei 99Posse.
Tutto ciò è stato il pretesto per il nervoso che mi è montato.
Anzitutto vorrei dire che non mi dispiace il folklore, le feste paesane, le sfilate carnevalesche, le sagre della salsiccia, i concerti e i festival canori estivi. Ma qui, c'è qualcosa che non va.
Perchè una manifestazione con annesso corteo che si prefigge di protestare con una motivazione politica, deve (non dovrebbe!) essere seria.
Non funebre, si badi. Ma seria.
Viceversa i destinatari dell'agitazione non potranno dare una risposta seria e tutto, allegramente, verrà ricordato come un semplice giorno di festa.
"E sò ragazzi...", penserà qualcuno.
Conseguentemente, il mio pensiero inviperito è andato ad altri momenti.
Al Primo Maggio, per esempio. Che qui a Torino è storicamente considerato come "il" Corteo, con la "c" maiuscola, ma che, purtroppo, negli ultimi anni si è trasformato più in una passerella pubblicitaria per il leader di turno.
Oppure, ad un qualsiasi corteo che sostiene uno sciopero.

Il benessere economico degli ultimi vent'anni e l'atteggiamento fin troppo servile dei sindacati nei confronti del Padrone, hanno fatto sì che le manifestazioni di protesta si trasformassero in "passeggiate prefestive".
Altri tempi quelli in cui i segretari sindacali dovevano badare attentamente alle parole usate nei comizi per evitare che dai gruppi di operai partisse il lancio dei bulloni (e Sergio D'Antoni ricorderà sicuramente cosa intendo...); e altri luoghi quelli in cui il corteo del Primo Maggio marcia compatto incutendo rispetto e timore, mi riferisco alla Grecia e al KKE.
Senza dubbio.
Però i tempi cambiano.
Oggi la crisi è feroce, checchè se ne dica.
I lavoratori, tutti, vedono sempre più messo a rischio il proprio diritto all'esistenza a seguito della precarizzazione, della cassa integrazione e dei licenziamenti sempre più frequenti.
Ma cosa si fa per protestare? In che modo si tenta di alzare la voce per gridare "Non siamo disposti a mollare"?
Praticamente nulla!
Ci si limita a scendere in piazza il sabato, di pomeriggio. Confondendosi, quasi mimetizzandosi, nello "struscio" dello shopping prefestivo.
Cosicchè l'unico reale fastidio che si provoca, lo si genera in qualche automobilista e in molti poliziotti che, è bene non dimenticarlo (ma che non diventi un alibi...), sono anch'essi lavoratori e per niente privilegiati.
Nel frattempo, i destinatari della protesta, i governi e i padroni, trascorrono il week-end a chiappe nude in villeggiatura e se ne battono grandemente.
Che disgusto, che squallore!
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1 ottobre 2009

Capitalismo post-industriale e società fluida. (di Marco)

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Affettività e nuove solidità relazionali.

Da studioso e docente delle strutture organizzative e relazionali d’impresa, mi sono ritrovato a riflettere negli ultimi anni sugli effetti degli impatti delle evoluzioni in atto sulle dinamiche affettive; sulla natura delle relazioni personali e dei rapporti affettivi nella società dei consumi che caratterizza la nostra epoca fluida e incerta. E sull’amore.
Oggi viviamo la società post-industriale frammentata, dove le vite sono costituite da episodi disgiunti tra loro, fluida e senza più corpo (“la società non esiste” nel contesto neoliberista, disse trenta anni fa M. Thatcher), della contemporaneità senza tempo in cui viviamo.
La società senza memoria e schiacciata sul presente (la società dei consumatori e dello scarto), che costruisce trappole identitarie e di appartenenza che hanno travolto i contesti di riferimento stabili che la modernità solida delle macchine aveva strutturato e sviluppato;
quella modernità descritta ottanta anni fa da S. Freud, costruita sulla restrizione delle pulsioni e l’ordine imposto al disordine naturale dell’umanità; il principio di piacere ridotto in funzione del principio di realtà, attraverso lo scambio di parte delle possibilità di felicità per un po’ di sicurezza.
Oggi prevale viceversa l’uniformità spietata del mercato, che il frullatore della globalizzazione capitalistica tutto macina, stracciando il vincolo sociale e solidale.
Dall’individuo moderno che nella società industriale assumeva il ruolo di “approvvigionatore di beni” all’individuo che si è ritrovato nel ruolo di “consumatore di merci”, dove assume il compito indotto dal condizionamento mediatico di collezionista di piaceri o, più precisamente, di cercatore di sensazioni.
Modalità produttive flessibili post-fordiste, generatrici di incertezza e precarietà. E, conseguentemente, ci chiediamo quale sia l’impatto di tale mutamento epocale sulle forme relazionali e sulle dinamiche affettive: l’amore cambia forma e si trasforma, nel venir meno del condividere collettivo, del progettuale a due.
Nel mondo dell’individualismo spinto all’eccesso che caratterizza l’uomo flessibile contemporaneo (R. Sennet), le relazioni d’amore presentano i pro e i contro, oscillando in continuazione tra un dolce sogno ed un orribile incubo, e mai si può sapere quando l’uno trasforma l’altro, in uno scenario di vita liquido-moderno (Z. Bauman), dove le relazioni stesse tendono a rappresentare le più diffuse, acute, sentite e sgradevoli incarnazioni dell’ambivalenza. Restando, proprio per questo, al centro della vita dei singoli e forse scritte nelle prime pagine della loro agenda di vita.
L’amore quindi tende a cambiare forma. Da un lato ogni singolo può esprimere come mai prima d’ora la propria soggettività, oltre i ruoli precedentemente codificati; dall’altro questo spazio può divenire il luogo della radicalizzazione dell’individualismo, poiché è l’unico dove poter dispiegare se stesso e giocarsi la propria libertà.
L’amore come dimensione indispensabile ma nello stesso tempo impossibile, nel cercare nel tu il proprio io e nella relazione non (soltanto) il rapporto profondo con l’altro quanto la possibilità di realizzazione e accrescimento di sé.
E cosa può accadere. In questa nemmeno troppo apparente contraddizione, ecco uomini e donne nelle loro differenze, non coscienti del loro stato, abbandonati a se stessi, che possono sentirsi degli oggetti a perdere, anelanti la sicurezza dell’aggregazione e un aiuto su cui poter contare nel singolo momento del bisogno.
E quindi ansiosi di instaurare relazioni ma al contempo timorosi di restare impigliati in rapporti stabili, per non dire definitivi poiché paventano che tale condizione possa comportare oneri e tensioni che non vogliono né pensano di poter sopportare. E che dunque possa fortemente limitare la loro tanto agognata libertà di avere relazioni altre, in una coazione a ripetere nel segno della passione e del godimento di cose nuove e diverse.
Possibilità che si susseguono ad un ritmo crescente, come per un abitante di Leonia, una delle Città invisibili di Calvino che rifà se stessa ogni mattina; dove le promesse di impegno non hanno senso nel lungo periodo, cercando di mantenere le giuste distanze e lasciando sempre le porte aperte ad altre possibilità che potrebbero essere più soddisfacenti e appaganti.
Oggi le relazioni sono al centro dei desideri, scopo primario, passione. Ma si coglie l’ambivalenza tra la ricerca di relazioni durevoli sotto la preoccupazione di evitare che i loro rapporti si condensino e coagulino nel lungo termine, con superficialità e leggerezza in modo da potersene disfare in qualsiasi momento.
Superato il vincolo del reciproco impegno, tende a divenire preponderante il concetto di rete (con a disposizione i network tecnico-informatici di supporto) dove è possibile con facilità per l’uomo flessibile entrare ed uscire, connettersi e disconnettersi, intervallando momenti di contatto a periodi di libera navigazione. Dove quindi le connessioni (ovvero relazioni virtuali, facili da instaurare ed altrettanto da troncare, uscendone il più possibile incolume) avvengono su richiesta e possono essere interrotte a piacimento, abolendo così le connessioni indesiderate.
Instaurare rapporti e individuare opportunità in situazioni fluttuanti e flessibili, per sfuggire al fastidioso senso di fragilità, con il rischio (la certezza?) di ritrovarsene ancor più penosamente preda.
La nostra cultura consumistica post-industriale privilegia prodotti pronti per l’uso, soluzioni rapide ed efficaci, soddisfazione immediata, risultati senza troppa fatica, ricette infallibili; imparare l’arte di amare è la promessa (falsa e ingannevole, ma che si spera vera) di rendere l’esperienza dell’amore simile ad altre merci, che attira e seduce; con l’aggravante che in questo caso non c’è alcun servizio post-vendita e neanche la garanzia soddisfatti o rimborsati.
Il tutto, rigorosamente customer oriented. Funziona per i prodotti, perché mai le relazioni dovrebbero sfuggire alla regola? Dalla mercificazione delle relazioni di lavoro produttive (identificazione del lavoro come merce) dell’economia liberista post-fordista, ai rapporti sentimentali flessibili nel laboratorio sociale fluido, proprio della società dei consumatori che si è sostituita a quella dei produttori.
Ora, tutto ciò implica la necessità ineludibile di ri-costruire legami definendo processi e progetti che vedano anche la rete certo, il network relazionale, ma non come fine bensì come strumento e mezzo; diviene fondamentale da parte di tutti noi imparare ad assimilare e ad effettuare una vera e propria inversione concettuale.
Ovvero provare ad utilizzare la comunità “virtuale” per consolidare e trasformarci con l’obiettivo di uscire dalla logica (fino ad oggi risultata vincente) della non-condivisione solidale e della atomizzazione frammentata di donne e uomini, nel chiaro recupero di spunti per solidità certe.
Puntando a riaffermare un capitale emotivo ricco di scelte razionali chiare e comunicabili in modo semplice, e che possa al contempo rappresentare anche un habitat affettivo. Per riformulare momenti di incontro fisico e condivisione, nel rispetto delle singole soggettività e identità. Da sinistra.

Scritto da MAT (membro)
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