"Non siamo pacifisti. Siamo avversari della guerra imperialista per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell'interesse del socialismo."
(Vladimir Ilič Ul'janov, Lenin, 1917)

29 settembre 2012

Sull'individualismo (di Giuseppe Di Meo)

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Un detto popolare russo, usato per frenare i comportamenti prevaricatori, recita: "Я, Я, Я... Я последняя буква алфавита.". "Я (che è anche il pronome personale "Io") è l'ultima lettera dell'alfabeto". Ottima visione! In contrasto con l'individualismo liberale che il cosiddetto "occidente" sta diffondendo per il mondo, ammorbandolo con la sua ideologia legittimatrice della sopraffazione. Checché ne dicano gli apologeti, la libertà individualistica e le volontà di potenza desideranti si incrociano con le altrui libertà. Non vi è un "confine" metafisicamente "naturale", "neutro", "equo", "egualitario" o "equidistante". Ritengo condivisibile la visione hegelo-marxiana che pone attenzione alla società composta da individui e agli individui collocati nella società. Non sono d'accordo con la visione liberale. Non a caso John Locke, il padre del liberalismo, era proprietario e commerciante di schiavi. Ritengo importanti le riflessioni marxiane sulla dipendenza personale nei modi di produzione pre-capitalistici, sull'indipendenza personale nel modo di produzione capitalistico (personale e non individuale perché il capitalismo non permette di spogliarsi dalla "charaktermaske" della "persona") e sull'indipendenza individuale nel comunismo. Altrettanto contestabile è, a mio avviso, l'ideologia della tolleranza (criticata anche da Marcuse, pur con tutti i dubbi sollevabili nei confronti di quest'ultimo) e delle iperstrombazzate visioni differenzialiste e pluraliste, utilizzate in senso repressivo e antidemocratico e atte a legittimare sfruttamento e inique disuguaglianze. Al di là delle retoriche del progresso e della tradizione, con le coppie "progredito"-"regredito" e "tradizionale"-"dissolutorio" (rispetto alle cui cattive metafisiche preferisco una visione dialettica); al di là delle interessanti riflessioni di Costanzo Preve e Diego Fusaro sulla linea filosofica Fichte-Hegel-Marx, anzi, sulla linea filosofica Spinoza-Vico-Fichte-Hegel-Marx; al di là delle posizioni di chi si ritrova maggiormente su posizioni "marxiste classiche" da teoria del riflesso o del rispecchiamento; al di là della distinzione fra l'idealismo berkeleyano e l'idealismo della filosofia classica tedesca; al di là dei dibattiti su "unità di essenza e coscienza", "unità di ontologia e assiologia", "struttura e sovrastruttura", costante basilarità storica dell'economia o basilarità dell'economia nella modernità capitalistica; al di là del dibattito materialismo dialettico "chiuso", materialismo dialettico "aperto", materialismo storico, idealismo della materialità; filosofia della prassi, scienza filosofica della totalità, ontologia dell'essere sociale, ontologia dell'uomo, materialismo aleatorio, ecc.; al di là delle discussioni suscitate dalle critiche postmoderniste, decostruzioniste, ermeneutiche e del pensiero debole su metanarrazioni, visioni teleologiche, crisi delle scienze e crisi in generale; al di là del confronto fra ontologi e gnoseologi; al di là delle riflessioni inerenti al soggetto transmodale, all'"esserci", alla questione filosofica del soggetto e dell'oggetto e al rapporto fra "Essere ed enti", ritengo degna di nota la seguente analisi di Boris Fedorovic Porsnev (il quale si avvale di molte citazioni di G. V. Plekhanov di cui non condivido le posizioni mensceviche, ma di cui riconosco le posizioni che in parte contribuirono alla formazione di Lenin e che offrirono comunque interessanti spunti di riflessione apprezzati in Unione Sovietica): "La Psicologia Sociale e la Storia". "Spontaneità e consapevolezza. (...) La sottovalutazione della psicologia porta a semplicizzare la dottrina sulla struttura e la sovrastruttura. E' impossibile dedurre in maniera convincente da una data situazione economica le tendenze ed i sistemi filosofici religiosi ed estetici che in quel momento regnano nelle menti. Questi tentativi hanno portato alcuni storici della cultura, quali Pereverzev e Frice, ad analogie semplicistiche e non mediate, quali ad esempio lo spiegare lo stile della chiesa di San Basilio a Mosca con la varietà e l'abbondanza delle merci che venivano vendute sulla Piazza Rossa. Ad una tale rappresentazione semplicistica, una specie di riflessione speculare della base nella sovrastruttura, i pensatori marxisti più attenti hanno sempre contrapposto l'idea che i rapporti socio-economici determinino in linea primaria non l'ideologia ma le stratificazioni più profonde ed asistematiche della coscienza sociale. G. V. Plekhanov sviluppò la teoria secondo la quale l'anello di congiunzione tra lo sviluppo economico e la storia della cultura in senso lato è rappresentato dai mutamenti che intervengono nella psicologia degli uomini e che sono condizionati dallo sviluppo sociale ed economico. Secondo coloro che condividono questa opinione le idee, la cultura sono un coagulo di psicologia sociale. Nei "Saggi sulla storia del materialismo" G. V. Plechanov suddivide tutta la struttura sociale della comunità in cinque elementi interdipendenti: «Il dato livello di sviluppo delle forze produttive; le interrelazioni tra gli uomini nel processo di produzione sociale definito da quel livello di sviluppo; la forma di società che riflette queste interrelazioni tra gli uomini; un determinato stato d'animo e di costume corrispondente a tale forma di società; la religione, la filosofia, la letteratura, l'arte corrispondenti alle capacità, agli orientamenti del gusto ed alle tendenze generati da questa situazione.» (G. V. Plekhanov "Izbrannyje filosofskije proizvedenija"). G. V. Plekhanov insiste nell'affermare che senza questo anello chiamato «stato d'animo e di costume» e che in altre occasioni egli definisce «disposizione predominante dei sensi e degli intelletti», più in generale definito psicologia sociale, non è possibile compiere alcun passo avanti nello studio della storia, della letteratura, dell'arte, della filosofia, ecc. E aggiunge: «Per comprendere la storia del pensiero scientifico o la storia dell'arte in un dato paese non basta conoscere la sua economia. E' necessario saper passare dall'economia alla psicologia sociale. Senza un attento esame e senza aver compreso la psicologia sociale infatti è impossibile una spiegazione materialistica della storia delle ideologie.» (G. V. Plekhanov, op. cit.). In un altro passo Plekhanov formula tale pensiero ancor più sinteticamente: " Tutte le ideologie hanno un'unica radice comune: la psicologia di quella data epoca.» (Ibidem).". "Da «Io e Tu» a «Noi e Loro». Abbandoniamo per un momento la psicologia e rivolgiamoci alla filosofia. Una delle idee più feconde avanzate da Ludwig Feuerbach in contrapposizione alla filosofia idealistica classica tedesca consistette nella proposta di rifiutare la precedente categoria «io» quale soggetto della conoscenza e sostituirla con la categoria «io e tu». Plekhanov esponeva il pensiero di Feuerbach nel modo seguente: «L'Io reale è soltanto quell'io al quale si contrappone un tu e che a sua volta diventa tu cioè oggetto di un altro io. Per sé, l'io è soggetto, per gli altri è oggetto.» (G. V. Plekhanov, "Ot idealizma k materialismu" - "Dall'idealismo al materialismo"). In altri termini Feuerbach riteneva anormale prendere in considerazione la coscienza indipendentemente dai rapporti tra gli uomini. Non esiste alcun «io», soggetto della conoscenza, prima del rapporto tra due persone. Ciascuno dei due diviene soggetto soltanto in questo reciproco rapporto. Feuerbach pensava possibile il materialismo filosofico soltanto ove si operasse non con un unico «soggetto» contrapposto all'«oggetto» (il mondo materiale), non con l'«io», con le proprie sensazioni e con gli altri attributi, ma sempre con due «soggetti» con i loro reciproci rapporti. Feuerbach spiegava questo concetto riportando l'esempio della morale: è chiaro che non si può parlare di morale che riferendoci a rapporti tra uomo e uomo, tra una persona ed un'altra, tra «io» e «tu». «Io sono io solo grazie a te e con te. Io ho coscienza di me soltanto perché tu ti contrapponi alla mia coscienza come un io visibile e tangibile, come un altro uomo.» (Ibidem). Sarebbe difficile sopravvalutare l'influenza di questo concetto di Feuerbach sull'ulteriore destino della filosofia. Per il pensiero più avanzato cessava così di esistere l'astratto ed isolato individuo-soggetto entrato nel cammino della filosofia con Kant e fino a Stirner. Marx nel Capitale esprime il suo concetto storico di uomo nel modo seguente: «Poiché egli nasce senza uno specchio nelle mani e non è un filosofo fichtiano, 'io sono io', l'uomo all'inizio si guarda, come in uno specchio, in un altro uomo. Soltanto riferendosi all'uomo Paolo come ad un suo simile, l'uomo Pietro si riferisce a sé stesso come ad un uomo.» (K. Marx - F. Engels, Opere Complete - in lingua russa). Il marxismo è andato molto più in là della supposizione di Feuerbach riguardo all'«io e tu». Perché soltanto due persone? Naturalmente il passaggio dall'«unico» alla coppia spalanca la porta su un mondo di nuovi concetti dove il rapporto tra gli uomini è primario e più importante dell'uomo stesso, che è un prodotto di questi rapporti. Però da ciò deriva che anche la coppia è una astrazione. Robinson e Venerdì, Pietro e Paolo non costituiscono ancora la società. Allo stesso modo nella produzione mercantile sviluppata ciascuna singola merce non viene in effetti paragonata con un'unica altra merce, sia pure quest'ultima l'oro, ma, con la mediazione di quest'ultimo, con tutto l'infinito mare di merci che vengono trattate in un dato momento dal mercato. Perciò Paolo ha coscienza della propria natura per mezzo di Pietro soltanto grazie al fatto che alle spalle di Pietro c'è la società, un enorme numero di persone legate in un tutto unico da un complesso sistema di rapporti. Marx ed Engels distinsero questi rapporti in principali e derivati e si proposero quale compito primario lo studio dei rapporti principali, quelli economici, che costituiscono la base di tutta la struttura sociale. Così al posto di una stella doppia si dispiegò un immenso cielo stellato. «Io e tu» cessò di essere la cellula umana elementare; apparvero sulla scena anche «noi», «voi» e «loro».". Come evidenziato nella presentazione al libro di Jan Rehmann (in Italia curato da Stefano Azzarà) "I Nietzscheani di Sinistra: Deleuze, Foucault, e il postmodernismo: una decostruzione": "E' possibile ricostruire una teoria filosofica e politica di sinistra partendo da Nietzsche? Da più di trent’anni, la parte che si vuole più “raffinata” della sinistra annuncia il superamento della metafisica, la fine delle grandi narrazioni, la morte della filosofia della storia. Un lungo viaggio iniziato tentando di fondare una critica del “socialismo reale” e delle sue meste proiezioni politiche in occidente. Proseguito nel tentativo di coniugare la lettura “postmoderna” con l’esigenza di affermazione di nuove figure sociali. Per ritrovarsi infine impegnata a celebrare le “magnifiche sorti e progressive” dell’Individuo proprio quando questo viene schiacciato ovunque sotto il peso di una precarietà (lavorativa, contrattuale, esistenziale, culturale) che ne distrugge il futuro già nel presente. Una occasionale rilettura di alcune opere di Friedrich Nietzsche ha propiziato tale operazione culturale: un rovesciamento quasi perfetto. Al filosofo tedesco e alla sua lettura della crisi della modernità si richiamano Gilles Deleuze, Michel Foucault e molti altri autori, grazie alla scoperta del concetto di “differenza” e dell’intrinseco pluralismo che esso implicherebbe. In questo libro, muovendo dalla lezione dei francofortesi (non risparmiando critiche neppure a loro), di Gramsci e Bloch, Jan Rehmann discute l’ambiguità di queste nozioni e mostra tutta l’arbitrarietà della lettura postmodernista di Nietzsche. Ed ecco che nelle mani dei “nietzscheani di sinistra” il pathos della distanza che separa gli aristocratici fuorusciti dal gregge degli schiavi si tramuta nel concetto di differenza in quanto tale; e la volontà di potenza viene ingentilita fino a sembrare metafora di una concezione cooperativa del potere. La religione di Zarathustra viene così riproposta come retroterra di “nuovi possibili percorsi individuali” di liberazione per i “nomadi” dei nostri giorni. Rehmann mostra come questi discorsi siano ben poco fondati in una lettura rigorosa dei testi nietzscheani e soprattutto, lungi dal costituire il presupposto per un rinnovamento della critica del dominio e della società capitalistica, siano del tutto solidali con l’offensiva ideologica neoliberale e le sue concrete pratiche di sottomissione politica e sociale.".
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7 settembre 2012

«L'assoluto tecnico come "cattiva infinità"»

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«Quanto detto vale evidentemente solo per quello stadio in cui la tecnica, per effetto della sua espansione quantitativa, si rende disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine, dispiegando una potenza non esattamente determinabile che rifiuta ogni fissazione ai risultati che con essa si possono raggiungere. Ciò differenzia qualitativamente la tecnica contemporanea dalla tecnica antica che non era circondata dall'alone dell'infinita possibilità, perché già a priori era destinata a un fine ben determinato che, penetrandola, caratterizzandola e dirigendola, la conteneva nel ruolo di puro mezzo che riceveva il suo significato solo dal fine in vista del quale era stata ideato. Quindi erano proprio le scarse risorse di cui disponeva la tecnica antica ciò che consentiva di mantenere quella prospettiva finalistica che la tecnica contemporanea invece abolisce.Nel mondo antico, infatti, ci si prefiggeva un fine a partire dal quale si sceglievano i mezzi, e se la via dei mezzi era già prescritta dalla natura delle cose, l'elezione dei fini era, compatibilmente con i vincoli fissati dalla natura, a discrezione dell'uomo. Oggi invece che l'attenzione viene spostata sulla preparazione dei mezzi, dalla cui maggior disponibilità dipende la realizzazione dei fini, i fini non sono più una scelta discrezionale della volontà a partire dai quali si va alla ricerca dei mezzi, ma piuttosto essi sono il prodotto meccanicistico dell'estensione dei mezzi che generano la disponibilità dei fini.
Senza questo spostamento dell'attenzione dal fine al mezzo, l'umanità non avrebbe esteso la sua ricerca alla disponibilità dei mezzi, che è possibile solo là dove i mezzi sono eletti come fine della ricerca. Questa diversa distribuzione dell'accento psicologico dal fine al mezzo, per quanto irrazionale sia dal punto di vista della logica classica, è stato il volano del progresso al di là dei fini che l'umanità si era originariamente preposta.Un esempio di questo capovolgimento del mezzo in fine lo si ha nella ricerca pura, la quale non ha in vista tanto dei fini da realizzare, quanto un ampliamento infinito dei mezzi da cui i fini scaturiscono in modo meccanicistico. Ciò significa che l'uomo non sceglie più il fine in vista del quale operare, ma questo fine gli viene offerto come risultato della tecnica, se la sua attenzione si sarà rivolta per intero e avrà scelto comne fine la maggior costruzione possibile di mezzi. Questo spostamento dell'intenzione, un tempo rivolta ai fini, all'attenzione oggi rivolta ai mezzi, dalla cui disponibilità dipende la realizzazione dei fini, fa della tecnica, in quanto aparato di mezzi, un valore assoluto di fronte a cui la coscienza del fine si arresta in modo definitivo. Come ciò a cui le cose oppongono una sempre minor resistenza, la tecnoica, infatti, come mezzo assoluto, diventa per l'uomo, anche dal punto di vista psicologico, il fine assoluto, per cui quelli che erano i grandi principi della vita pratica in qualche modo si irrigidiscono e trovano il loro arresto se non addirittura la loro insignificanza.
Quando infatti il mezzo diventa fine, nella catena infinita della conquista dei mezzi, la vita umana vive i suoi momenti come se ciascuno fosse un fine ultimo, come se essa si fosse organizzata proprio per giungere fino a lì, e contemporaneamente come se nessuno di questi momenti raggiunti fosse, come in effetti non è, lo stadio definitivo, ma solo il punto di passaggio e il mezzo per stadi sempre più elevati. Questa condizione, apparentemente contradittoria, per cui ogni momento della vita è a un tempo fine da raggiungere e insieme punto di passaggio da oltrepassare, oltre ad esprimere quella "cattiva infinità" denunciata da Hegel ["Qualcosa diventa altro, ma l'altro è esso stesso un qualcosa, e quindi diventa un altro, e così all'infinito. Questa infinità è la cattiva infinità, ossia l'infinità negativa, non essendo che la negazione del finito il quale però torna a nascere di nuovo e quindi non è superato; - detto altrimenti, questa infinità esprime semplicemente il dover essere del superamento del finito. Il progresso all'infinito si limita ad esprimere la contraddizione contenuta nel finito; ossia il fatto che il finito è tanto qualcosa, quanto il suo altro, ed è l'incessante prosecuzione dell'avvicendarsi di queste determinazioni che provocano reciprocamente l'uno l'avvento dell'altra", G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche], toglie alla vita il suo senso e obbliga l'anima a trovare appagamento in quela formazione dello spirito: la tecnica, che, fra tutte, è la più esteriore alla natura, alla qualità e all'intensità dell'anima.
Si tratta a questo punto di cogliere e di evidenziare le trasformazioni antropologiche conseguenti a questa esteriorizzazione dell'anima, al cadenzarsi della sua interiorità di quella "cattiva infinità" che la tecnica, divenuta senso della terra, esprime come definitiva abolizione di ogni fine uiltimo. Ma prima occorre riconoscere i segni della tecnica rntracciabili nella disposizione che essa da del mondo, nella riduzione della verità a efficacia, nella riconduzione della ragione all'ordine strumentale, nelle sorti via via assegnate al mondo della vita, fino ai processi inavvertiti, ma inevitabili, di progressiva reificazione dell'uomo.»
 (Psiche e techne, U.Galimberti)
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«Modernità e post-human»

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«[...] la contrapposizione fra modernità e postmodernità non regge. E', infatti, la coppia della libertà individuale e dello sviluppo delle forze produttive (apparato tecnico-economico) che ispira e connota le logiche evolutive del capitalismo, aldilà degli specifici contesti storici. Se l'antropologia della modernità inaugura la nuova configurazione dell'individuo come soggetto di bisogni, destinato all'appagamento immediato, è inevitabile che l'unico obiettivo che corrisponde a tale rappresentazione sia quello della massima espansione della ricchezza consumabile, al di fuori di ogni vincolo materiale dipendente da temporalità e spazialità tradizionali.
La dissoluzione del mondo nell'apparato capitalistico-tecnologico istituisce un codice immunitario globale capace di garantire la sopravvivenza della vita oltre ogni condizionamento relativo ai limiti naturalistici dell'universo e della materia.
La libertà dei moderni, infatti, è l'aspirazione a una potenza illimitata, che si autorealizza nel proprio sciogliersi da ogni vincolo e che, appunto per ciò, si capovolge nella necessità del meccanismo destinato a consentire il perseguimento dell'infinità degli scopi particolari. La metamorfosi continua diventa, per la modernità, il progressivo adeguamento del principio della libertà alla necessità dello sviluppo delle forze produttive della tecnica. Per realizzare la contingenza della infinita pluralità dei bisogni, occorre accettare la necessità del modo di produrre che massimizza la capacità di creare ricchezza.
L'orizzonte del post-human coincide con quello dell'evoluzione del capitale fino a divenire capitale cognitivo immateriale. Il vero telos della modernità è la sconfitta della finitezza e della mortalità, che unifica il pluralismo delle forme nella destinazione all'immortalità dell'essere.
Sotto questo profilo, la modernità appare non solo coerente con gli esiti attuali, ma si manifesta per quello che rappresenta profondamente: l'aspirazione a una coincidenza di essere e divenire, di morte e vita, che proietti la singolarità individuale in un universo destinato all'evoluzione infinita del codice immunitario della natura vivente.Il post-human è, cioè, il prolungamento dell'ideologia moderna dell'onnipotenza dell'autocostituzione della prassi e dell'immutabilità dell'essere. Un'ideologia dell'immortalità mascherata da conquista scientifica, che, intanto, ha l'effetto di perpetuare all'infinito l'antropologia dell'uomo soggetto di bisogni e del modo di produrre che a essa corrisponde.
Il post-human è la radicalizzazione dell'immanenza del codice vivente al processo evolutivo che non consente di ipotizzare alcuna trascendenza e alcun fondamento: norma e fatto coincidono nell'ibridazione di biologia e intelligenza artificiale, uomo e computer.»
(Pietro Barcellona, L'epoca del postumano, CittàAperta-Enna-2007)
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