"Non siamo pacifisti. Siamo avversari della guerra imperialista per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell'interesse del socialismo."
(Vladimir Ilič Ul'janov, Lenin, 1917)

18 marzo 2012

«Globalizzazione, postmoderno e “marxismo dell’astratto”»

0 commenti
Di Roberto Finelli

Fonte: Consecutio Temporum , Rivista critica della postmodernità

«(abstract. In Marx’s work we can isolate two different paradigms that need to be understood in a deeply different way from the interpretation provided by L. Althusser and his school during the 60’s and 70’s. This article posits a fundamental distinction between Marx’s theory of historical materialism and Marx’s theory of Capital. While the first one is centered on the promethean exaltation of the development of productive forces, the second one describes a social system grounded on an impersonal mechanism of socialization. This mechanism is constituted by an abstract and quantitative wealth characterized by a tendency towards unlimited accumulation. This second paradigm, that is the Marxian theory of Capital, could be named “Marxism of abstraction” in opposition to the first one, the Marxian theory of historical materialism, defined as a “Marxism of contradiction”. This article suggests that only a Marxism of abstraction can contribute to a profitable understanding of the contemporary transition from Fordism to Postfordism, from a regime of “rigid” accumulation to a regime of “flexible” accumulation of capital. 
– Nell’opera complessiva di Karl Marx sono presenti due paradigmi teorici che vanno interpretati in modo profondamente diverso da come hanno fatto negli anni ’60 e ’70 Althusser e la sua scuola, pretendendo di imporre al marxismo una struttura teorica estranea proveniente dallo strutturalismo linguistico. In questo saggio, per comprendere la realtà vera della globalizzazione che stiamo vivendo, si compie l’operazione teorica di differenziare il Marx del materialismo storico e dell’esaltazione prometeica dello sviluppo delle forze produttive dal Marx teorico del Capitale come un sistema sociale fondato, non sulla volontà e le decisioni di soggetti individuali, bensì su un fattore impersonale di socializzazione, costituito da una ricchezza non-antropomorfa ma solo quantitativa ed astratta, con una tendenza illimitata all’accumulazione. Solo un marxismo dell’astrazione, invece che un marxismo della contraddizione, può chiarire il cuore del passaggio contemporaneo dal fordismo al postfordismo, dall’accumulazione rigida all’accumulazione flessibile. Questo passaggio è incentrato sul fatto che ora il capitale mette a lavoro non più il corpo ma la mente delle forza-lavoro. Ma tale passaggio non modifica la sostanza interpretativa dell’impianto marxiano che consiste nell’assegnare al capitale, ad ogni rivoluzione tecnologica significativa, il compiti di condurre il lavoro a lavoro astratto, ossia a quel lavoro controllabile e normalizzabile che, nella sua assenza di variazioni e intepretazioni soggettive, costituisce la sostanza del valore astratto della ricchezza capitalistica).

1. L’«americanismo» come idealtipo della globalizzazione.

Le riflessioni che seguono nascono da quella che a me sembra la caratteristica più paradossale della realtà che stiamo vivendo: tanto caratterizzante l’intera realtà, storica e sociale contemporanea, da configurarla appunto come null’altro che un unico grande paradosso. Il paradosso è quello della contraddizione tra il piano dell’Essere e quello dell’Apparire, ossia tra il piano interiore e profondo della struttura del reale e quello esteriore della forme della coscienza individuale e collettiva con cui quella struttura viene appresa e conosciuta, anzi nel nostro caso bisogna dire viene distorta e misconosciuta.
Con il crollo del comunismo cosiddetto reale il mondo conosce oggi solo l’«
americanismo» come forma unica di civiltà e di organizzazione sociale. E l’americanismo, per quello che dirò subito, vale per me come la realizzazione, oggi, più completa e più avanzata del capitalismo, proprio come la maturità dell’Inghilterra valeva per Marx come la forma canonica del capitalismo dell’800. E americanismo senza America, americanismo oltre i confini d’America, può essere definita l’attuale globalizzazione, se la si considera come generalizzazione a tutti i paesi del globo, con gradi diversi ovviamente di sviluppo e di sottosviluppo, del medesimo modello di produzione, distribuzione e consumo di merci, della medesima ricerca di profitto, della medesima invasività e diffusione del mercato e della medesima attitudine a trasformare tutti i rapporti umani in rapporti quantificabili e mediati dal denaro.
Per altro non v’è dubbio che la globalizzazione debba essere vista, ancora oggi, soprattutto come maggiore velocità e ubiquità di spostamento del capitale finanziario e spesso solo speculativo, senza cedere alla facile quanto superficiale rappresentazione che la prospetta come il darsi di un unico mercato mondiale con un’unica concorrenza che genererebbe medesimi prezzi delle merci, del lavoro del denaro
[Cfr. su ciò R. Bellofiore, Dopo il fordismo, cosa? Il capitalismo di fine secolo oltre i miti, in R.Bellofiore (a cura di), Il lavoro di domani. Globalizzazione finanziaria, ristrutturazione del capitale e mutamenti della produzione, Biblioteca Franco Segantini, Pisa 1998, pp. 23-50.]. Laddove la sua effettiva realtà si presenta come non solo profondamente differenziata quanto asimmetrica, anzi tale che in essa polarità e distanze, differenze tra sviluppo e sottosviluppo si acuiscono, almeno per chi ragioni in termini di statistiche comparate e relative e non di dati assoluti di crescita e di progresso. Eppure la globalizzazione, pur sottratta al segno retorico di presunti universalismi e di omogenei sviluppi, può comunque essere considerata unitariamente come «una immane raccolta di merci», nel senso dell’aumento sempre più ampio e sempre più intenso della quota di popolazione mondiale che dipende per la propria riproduzione in modo integrale dall’esposizione e dalla mediazione con il mercato.
Ora il paradosso di cui parlavo all’inizio consiste, a mio avviso, nel fatto che proprio quando, con il venir meno del socialismo reale, si diffonde e s’impone, sia pure, torno a dire, con una configurazione a macchie di leopardo, un unico modello di vita economica e sociale, capace di stringere nella sua ricerca del profitto e della remunerazione monetaria qualsiasi tipologia, da quella più avanzata a quella più arcaica, di lavoro, viceversa in termini culturali e simbolici, alla consapevolezza e allo studio dell’uno e del modo in cui l’uno si articoli nella molteplicità delle differenze, s’è venuta sostituendo una cultura del frammento, dell’informazione e dell’atto linguistico-comunicativo da interpretare attraverso altre informazioni ed altri atti comunicativi, ossia la prospettiva di un’ermeneutica infinita che considera come tramontati concetti come verità, realtà, oggettività. S’è venuta facendo egemone insomma una cultura che rifiuta la prospettiva delle cosiddette ideologie, delle concezioni unitarie del mondo. La sistematicità delle quali viene infatti svalutata e degradata, quale grande favola narratrice o visione totalizzante e totalitaristica.
La contraddizione paradossale della realtà contemporanea si colloca perciò essenzialmente nello scarto tra reale e simbolico, per cui mentre da un lato si intensifica e si approfondisce l’attualità del capitalismo, che diviene cornice e legge unitaria del mondo, dall’altro si sviluppa un pensiero postmoderno, diffuso ed egemone, secondo cui la nuova società postindustriale e postfordista nella quale viviamo, almeno nell’Occidente avanzato – definita anche società della conoscenza e dell’informazione o società della high tecnology o società della fine del lavoro – [sarebbe] è una nuova formazione storico-sociale, che romperebbe con i principi classici della modernità, ottocentesca e novecentesca, inaugurando una nuova realtà che non si conforma più alla struttura di classi contrapposte, alla regola dello sfruttamento, al capitalismo industriale.
Per sciogliere questo legame di opposizione tra l’approfondimento capitalistico del moderno e il suo apparire nelle coscienze come postmoderno e postcapitalistico, io credo che, sia pure in modo molto rapido e schematico, sia opportuno chiarire la natura di quello che ho chiamato «americanismo». Riprendendo la concettualizzazione di Gramsci, che per primo ha introdotto il termine nella letteratura sociologica e politica
[Cfr. A. Gramsci,, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V.Gerratana, Einaudi, Torino 1975, III, pp. 2139-2181], propongo di definire «americanismo» quella tipologia di organizzazione sociale nella quale la «struttura» si estende e si dilata direttamente e senza mediazioni di ceti intellettuali o politici, a «sovrastruttura», producendo, insieme con l’economico, propriamente anche il culturale e il simbolico. Dove cioè l’«economico» produce nello stesso tempo a) le merci e i beni materiali; b) i rapporti sociali e le differenze di classe; c) l’immaginario e le forme generali della coscienza, individuale e collettiva. E dove quindi tale potenza, anzi onnipotenza, dell’economico, che si fa principio generatore dei diversi e molteplici aspetti della vita sociale, assegna all’americanismo la caratteristica di compagine totalitaristica e unidimensionale.
Quell’acuto geografo storico-sociale che è David Harvey, ai cui studi sul postmoderno da una prospettiva marxista è, insieme al lavoro di Frederic Jameson, assai utile richiamarsi, scrive in un testo del 1990, intitolato appunto
The Condition of Postmodernity, che “un particolare sistema di accumulazione può esistere perché il ‘suo schema di riproduzione è coerente’. Il problema consiste nel dare ai comportamenti di tutte le categorie di individui – capitalisti, lavoratori, dipendenti statali, finanzieri e tutti gli altri agenti politico-economici – una configurazione che permetta al regime di accumulazione di continuare a funzionare. Deve esistere perciò una materializzazione del regime di accumulazione sotto forma di norme, consuetudini, leggi, reti di regolazione, ecc., che garantisca l’unità del processo, cioè la coerenza dei comportamenti individuali con lo schema di riproduzione[D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, tr. it. di M. Viezzi, Net, Milano 2002, pp. 151-52. ]. Vale a dire che, se nella vita della società l’ambito culturale-simbolico comanda l’accesso al piano motivazionale dei comportamenti individuali, in una riproduzione sociale basata sull’accumulazione di capitale ne deriva, per l’istanza totalitaristica che si diceva la caratterizza, che anche quell’ambito virtuale e costituito dai modi del percepire, del rappresentare e del valutare, deve essere mediato e governato dalla logica di quell’accumulazione.
Ma comprendere in che senso la globalizzazione oggi sia una globalizzazione intenzionata ed egemonizzata dell’americanismo e che tipo peculiare di accumulazione di capitale oggi la caratterizzi implica sapere e dover distinguere all’interno della categoria generale di americanismo le due diverse tipologie di accumulazione, quella fordista o, come anche viene detta, dell’accumulazione rigida e quella postfordista o dell’accumulazione flessibile, che ne hanno scandito la storia durante il secolo scorso per giungere fino ai nostri giorni.
Converrà però fare, ai fini della mia esposizione, un passo indietro. Prima di definire e concettualizzare la differenza tra accumulazione rigida e accumulazione flessibile mi sembra utile infatti schematizzare quelle che, a mio avviso, sono state le acquisizioni teoriche fondamentali, ancora oggi – anzi oggi ancora maggiormente – valide di Marx sulla struttura economica del capitalismo. Esse possono, io credo, essere sintetizzate in quattro punti:
Primo (Quantità versus qualità)
Il capitalismo è obbligato costantemente alla crescita. Il capitale è ricchezza astratta, quantità di moneta che deve essere aumentata e accumulata. La natura quantitativa della sua ricchezza, espandibile tendenzialmente all’infinito proprio perché quantitativa, impone che il capitalismo per realizzare il profitto e l’accumulazione deve espandere costantemente la produzione, non curandosi del mondo umano e qualitativo, ossia operando indipendentemente dalle conseguenze di ordine sociale, politico, geopolitico ed ecologico.
Secondo (Lavoro astratto versus lavoro concreto)
La crescita dipende dallo sfruttamento della forza-lavoro durante il processo produttivo. Sfruttamento non significa pauperizzazione, ossia che i lavoratori guadagnino poco o in modo scarso e insufficiente rispetto alla loro riproduzione, bensì che il profitto nasce e dipende dalla differenza tra ciò che i lavoratori guadagnano e quanto creano. Il controllo della forza-lavoro durante il processo di lavoro, ossia la lotta di classe nella produzione, è dunque la condizione fondamentale della crescita e dell’accumulazione. La chiave di questo controllo sta nell’imposizione alla forza-lavoro di erogazione di lavoro astratto, ossia il riuscire a porre da parte della direzione d’impresa gran parte delle conoscenze, delle decisioni tecniche e dell’apparato disciplinare fuori dal controllo della persona che concretamente effettua il lavoro.
Terzo. Il capitalismo è costantemente dinamico dal punto di vita sia dell’innovazione tecnologica che dell’innovazione organizzativa. 
Ogni capitalista è esposto a una doppia concorrenza: quella con gli altri capitalisti e quella con i propri lavoratori. Gli investimenti nell’innovazione tecnologica e in quella organizzativa sono indispensabili, insieme, sia per la produzione di profitti ed extraprofitti sia per il controllo della lotta di classe.
Quarto. La dinamica del capitalismo è comunque di necessità esposta alla crisi. 
La struttura di classe della distribuzione del reddito non consente infatti l’assorbimento continuo dell’espansione e della crescita. Il capitalismo tende ad entrare in fasi periodiche di sovraccumulazione, in cui capitale inutilizzato e forza lavoro inutilizzata si fronteggiano inoperose e da cui in genere si torna ad uscire attraverso enormi distruzioni di capitale, merci e forza lavoro.
Di questo quattro punti che nella teorizzazione di Marx rappresentano le invarianti del modo di produzione capitalistico quello che costituisce la frontiera decisiva del confronto di classe è, come dicevo, almeno a mo avviso, il secondo, quello concernente la necessità da parte dell’impresa capitalistica di riuscire ad imporre alla forza lavoro – sia essa manuale o intellettuale non importa – l’erogazione di lavoro, non concreto, ma astratto, giacché «
lavoro astratto» significa lavoro disciplinato e disciplinabile, da cui è espulsa la soggettività della forza-lavoro, con tutte le implicazioni di non regolarità, discontinuità, non manipolabilità, non omologabilità che il soggettivo porterebbe con sé.
Per altro la questione e la realtà del lavoro astratto sono centrali nel pensiero maturo di Marx, non solo perché definiscono quanto di disumano si gioca nella produzione di capitale ma anche perché sono il fondamento della teoria del valore-lavoro, giacché come scrive lo stesso Marx nei Grundrisse, il fatto che sotto i prezzi monetari ci siano le quantità di lavoro, e di lavoro appunto omogeneo e scambiabile – come vuole appunto la teoria del valore-lavoro – se sul piano del mercato e dello scambio di compere e vendite può sembrare una ipotesi solo soggettiva, del solo Carlo Marx, pari quanto a verosimiglianza alle ipotesi delle altre teorie economiche, si fa invece realtà vera, in modo oggettivo, «
praticamente vera» [K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), trad. it. a cura di G. Backhaus, Torino, Einaudi 1976, vol. I, p.30.], come scrive Marx, quando nel cuore della produzione e dunque per milioni di uomini e donne che costituiscono la forza lavoro il lavoro si fa necessariamente astratto e per tutti tendenzialmente eguale ed omogeneo quanto all’uso capitalistico e alle modalità con cui viene praticato. Non a caso l’operaismo, con la sue mitologie e le sue forzature di una soggettività lavoratrice sempre all’attacco e sempre anticipata, quanto a iniziativa storica, rispetto al capitale, ha dovuto rimuovere da sempre dal suo orizzonte la questione sia del lavoro astratto che della teoria del valore-lavoro considerandoli residui di un Marx subalterno a Ricardo e alla scienza economica borghese [Per una discussione critica delle principali categorie dell’operaismo cfr. Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia, manifestolibri, Roma 2005.].

2. Americanismo di prima e di seconda generazione

Ma torniamo all’americanismo e alla centralità del comando sul lavoro nelle due fasi storiche dell’accumulazione rigida e dell’accumulazione flessibile.
Riguardo a tale distinzione, possiamo definire il fordismo come un compromesso particolare e specifico tra capitale e lavoro, per cui mentre la forza lavoro cede al capitale il controllo della produzione, dei tempi, dei ritmi, del proprio corpo, la stessa forza lavoro ottiene in cambio l’accesso all’acquisto dei beni di consumo di massa e, attraverso il welfare, ma questo avviene soprattutto in Europa, ottiene la partecipazione ai servizi dello Stato sociale.
Il fordismo-taylorismo si è basato, com’è noto, sullo strutturarsi insieme della grande fabbrica, organizzata secondo catena di montaggio, e dello scientific management, che imprigiona il corpo della forza-lavoro in una serie di operazioni parcellizzate e ripetitive. Solo che, come dicevo all’inizio, il fordismo-taylorismo è stato controllo del corpo non solo dal lato della qualità e quantità della prestazione lavorativa ma anche dal lato dei bisogni e dell’immaginario ad essi legati. Il fordismo ha significato infatti anche produzione standardizzata di beni di consumo di massa e tendenziale aumento, storicamente significativo, del salario reale, in conseguenza della maggiore concentrazione e forza contrattuale dei ceti operai.
Nell’arco del primo cinquantennio del XX° sec., soprattutto con il decollo economico legato allo sviluppo della produzione durante il secondo conflitto mondiale, il fordismo ha trasformato pertanto la funzione sociale della forza-lavoro, aggiungendo alla sua identità classica, ottocentesca, di erogatrice di energia lavorativa e di mero oggetto di sfruttamento all’interno della produzione, quella di soggetto del consumo nella sfera della circolazione e dell’uso delle merci. Ed è appunto a muovere da qui, dalla produzione di beni di consumo durevole di massa (abitazioni, macchine, autostrade, elettrodomestici), la cui disponibilità faceva uscire buona parte dei ceti popolari da un’esistenza di mera riproduzione fisica per introdurli a un’esistenza da cittadini, che l’industrialismo americano ha iniziato a produrre anche i bisogni, il desiderio e l’immaginario sociale del lavoratore-consumatore. Così, nell’orizzonte di una cittadinanza cui si accedeva attraverso il consumo, l’industria capitalistica, direttamente, nel periodo storico considerato – e senza bisogno della mediazione di ceti intellettuali e politici che fossero preposti all’elaborazione del consenso e delle ideologie – ha prodotto le forme dominanti e generali della coscienza individuale e collettiva. Basti pensare in tal senso a quanto radio, televisione e industria cinematografica abbiano amplificato, ma né inventato né originalmente concepito, l’immagine tipica e ideale della famiglia americana, cellula della democrazia e della libertà, con l’uomo procacciatore di reddito attraverso il lavoro e la donna riproduttrice dei figli e di una vita domestica abbellita e alleggerita dagli elettrodomestici e dai beni di consumo durevole del nuovo industrialismo.
Quando nella prima metà degli anni ’70 questa tipologia, insieme di accumulazione capitalistica e d’integrazione sociale, entra in crisi, per la concomitanza di più cause, tra cui in primo luogo la saturazione del mercato dei beni di consumo durevole e il cambiamento nei rapporti di forza internazionale per cui gli Stati Uniti passano dalla condizione di paese creditore alla condizione di massimo paese debitore del mondo, e quando il crollo del sistema di Bretton Woods testimonia che gli Stati Uniti non hanno più il potere di controllare da soli la politica monetaria mondiale, l’americanismo si trova obbligato a concepire un nuovo modello di accumulazione la cui base tecnologica è costituita, per dirla assai in breve, dall’applicazione dell’informatica e delle macchine dell’informazione ai processi produttivi, alla distribuzione e ai servizi, oltreché dall’utilizzazione della forza-lavoro, riferita non al corpo e alla manipolazione di oggetti materiali di lavoro, bensì riferita alla mente e ad operazioni logico-calcolanti su dati alfa-numerici.
Tale rivoluzione tecnologica, legata alle macchine informatiche, consente una nuova organizzazione del tempo e dello spazio, dando vita a quella che è stata chiamata correttamente una nuova «
compressione spazio-temporale» del mondo capitalistico. Una riorganizzazione del tempo e dello spazio che appunto ha offerto all’americanismo la possibilità storica di sviluppare una nuova tipologia del processo di accumulazione capace di confrontarsi e di aggirare tutte le rigidità dell’accumulazione fordista. La flessibilità e la mobilità, la maggiore velocità del tempo di rotazione del capitale, al pari del tempo di rotazione dei consumi e della durate dei beni, divengono infatti i nuovi criteri con cui riorganizzare l’intero mondo economico: rispettivamente i processi produttivi e la tipologia dei prodotti, i mercati dei lavoro, perché di mercati e non di un solo mercato del lavoro bisogna parlare, e i modelli di consumo.
Molto è già stato scritto sull’applicazione della robotica e dell’informatica alla produzione, sui sistemi di gestione del magazzino just-in-time, sull’esternalizzazione di funzioni e servizi prima all’interno del ciclo produttivo, sulla crescita del subappalto e delle attività di consulenza, sullo smembramento delle grandi unità produttive, sulla delocalizzazione delle imprese, sulla riduzione della durata di vita e di consumo delle merci, sulla sostituzione delle economie di scala con le cosiddette economie di scopo, ossia sulla crescente capacità di produrre una gran varietà di beni a basso prezzo e in piccole quantità. Molto è stato scritto insomma sulla differenza tra il paradigma industriale del vecchio capitalismo basato su una struttura meccanicistica e il paradigma postindustriale del nuovo capitalismo basato sulle reti di mercato. E molto è stato scritto, oltre che sulla frantumazione del mercato del lavoro, sull’utilizzazione di lavoro precario, di lavoro connesso con le masse di emigranti, sulla grande riorganizzazione del sistema finanziario mondiale coordinato per mezzo di telecomunicazioni istantanee, che ha visto da un lato la formazione di conglomerati finanziari e di intermediari di estensione mondiale, con un’enorme capacità di spostare denaro, e dall’altro un decentramento dei flussi finanziari attraverso la creazione di nuove borse e di mercati finanziari assolutamente nuovi, come quello dei fondi d’investimento, o l’espansione di mercati finanziari già esistenti come quello di futures su merci o dei debiti a termine.


3. Al moderno il corpo, al postmoderno la mente.

Pure non va evitata la domanda di fondo che il passaggio dal paradigma industriale a quello postindustriale pone sul piano storico e sociale.
Si tratta del transito ad una formazione storico-sociale diversa e nuova rispetto a quella moderna, come vogliono i sostenitori del postmodernismo, con la loro teorizzazione della fine della società fondata sulle classi e sulla lotta di classe, con la loro teorizzazione della fine della società del lavoro, e il passaggio dalla fatica del lavoro manuale alla creatività del lavoro intellettuale e comunicativo, con la caduta del comunismo cosiddetto reale e la fine delle ideologie?
O si tratta, nel passaggio, dal fordismo al postfordismo, di una mutazione solo superficiale e apparente del capitalismo che non ne modifica la struttura di fondo e che lascia inalterate e valide tutte le categorie della classica interpretazione marxiana. Da parte di chi sostiene quest’ultima tesi, si sostiene che di fondo non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Che tutto si può ricondurre al plusvalore assoluto e al plusvalore relativo di Marx, spiegando la prima categoria la dislocazione delle imprese da regioni ad alto salario e a orario contenuto a regioni di basso salario con giornata lavorativa lunga, e spiegando la seconda categoria le innovazioni organizzative e tecnologiche che consentono extraprofitti temporanei alle aziende innovatrici e poi profitti più generalizzati dovuti alla riduzione del costo dei beni che costituiscono il salario reale dei lavoratori. Che la tendenza del capitalismo alla mondializzazione, all’espansione dei mercati, al trasferimento di capitali, c’è sempre stata. E che dunque nulla cambia se non per un ampliamento delle quantità o per una utilizzazione più intensa delle categorie del capitalismo classico.
Bene io credo che non si possa seguire nessuna delle due strade, né quella della discontinuità storica dei postmodernisti né quella della continuità, senza trasformazioni radicali, teorizzata dai marxisti tradizionali. A mio avviso va invece percorsa un’altra strada che unisca insieme modernità e postmodernità, senza rinunciare nello stesso tempo ad utilizzare gli strumenti teorici concepiti da Marx. A patto però, come si vedrà subito, di abbandonare il marxismo tradizionale e classico della «contraddizione» e di estrarre dallo stesso Marx un altro paradigma teorico che da ormai un trentennio io provo a proporre, a concettualizzare e a definire come il «
marxismo dell’astrazione». Solo il marxismo dell’astratto può consentire infatti di comprendere e di definire il nesso tra postmoderno e moderno come un nesso non diacronico, come se fossero due tempi od epoche storiche diverse, ma come un nesso sincronico, per il quale il postmoderno è null’altro che il moderno, ma un moderno capace come non mai di nascondersi e dissimularsi a sé stesso. Solo un marxismo che usa come sua categoria fondamentale interpretativa e di ricerca non la contraddizione, ma l’astrazione può cioè confrontarsi con la nuova totalità storico-sociale che il capitale oggi pone in essere, legando le nuove modalità dell’accumulazione economica con il nuovo sistema di regolazione ideologico e politico, con il nuovo sistema di rappresentazioni collettive, che quelle stesse modalità richiedono e producono.
A tal fine è bene ritornare sull’americanismo, sull’americanismo che possiamo chiamare di seconda generazione, e mettere a fuoco che tipo di relazione specifica si dia oggi tra il nuovo lavoro, il cosiddetto lavoro intellettuale o mentale, e le nuove tecnologie dell’informazione. Non perché questa nuova organizzazione del lavoro coincida con la globalizzazione, dato che il capitale è in grado oggi, com’è noto, di utilizzare, ovunque ne abbia la convenienza, e come parti non accessorie del suo sistema produttivo, vecchi sistemi di lavoro a domicilio, artigianale, patriarcale-familiare o paternalistico-mafioso. Ma perché è il possesso e l’uso, quanto più avanzato, della tecnologia informatica che garantisce le posizioni di punta e l’egemonia sia nei diversi comparti del capitale produttivo che di quelli del capitale finanziario.
Da parte dei più, non solo dagli imprenditori e dalle direzioni aziendali, ma anche dai sociologi, dai sindacalisti, dai politici, dagli intellettuali di varia natura, ci è stato e ci viene detto che con la tecnologia informatica e con la messa al lavoro, non del corpo, ma della mente, si conclude finalmente un’antropologia lavorativa connotata dalla fatica e dal gravoso confronto con la durezza del mondo materiale e si inaugura l’epoca di un lavoro cognitivo e creativo, basato sull’uso dell’intelligenza e della conoscenza e sul confronto, agile e dinamico, con un mondo di dati virtuali. Anche dagli operaisti, sempre pronti a scoprire formule che stupiscano, ci viene detto che il lavorare è ormai un comunicare e che l’essenza della prassi, di quella che appunto una volta era la prassi materiale, oggi è il linguaggio, da cui muove la possibilità di stringere in un general intellect discorsivo, in una rete di comunanza comunicativa, la massa dei nuovi lavoratori della mente.
Io credo, al contrario, che sia essenziale sottrarsi a questo riduzionismo linguistico che è diventato oggi l’orizzonte generale del senso comune, non solo intellettuale ma generalizzato e di massa, e considerare che l’informazione in un processo di lavoro capitalisticamente organizzato non è mai solo descrittiva ma è sempre anche prescrittiva; implica cioè un codice di senso predeterminato che obbliga la forza-lavoro in questione a muoversi secondo un contesto di possibilità già definite e strutturate. Non va dimenticato infatti che la caratteristica fondamentale delle nuove tecnologie è quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del cervello umano. Tale mente artificiale può valere come ampliamento di memoria, a disposizione di un soggetto elaboratore e creativo, solo nel caso di attività private e ad alto contenuto di professionalità. Nel caso di processi lavorativi finalizzati alla produzione-circolazione di merci, alla produzione di servizi, alla informatizzazione di funzioni burocratiche pubbliche funziona invece come mente esterna che sistema e accumula le informazioni secondo un codice che implica contemporaneamente schede o disposizioni predeterminate di lavoro, ossia modalità flessibili ma predeterminate d’intervento e di risposta da parte della mente del lavoratore non manuale.
E’ dunque l’«
anima», diciamo così, del nuovo lavoratore cognitivo, la sua intelligenza sia come comprensione globale-intuitiva che come attitudine logico-discorsiva, ad essere ora subordinata a un programma di senso e di operazioni già predefinite. Vale a dire ossia che proprio ciò che finora veniva definito come la caratteristica più personale e non omologabile del soggetto umano, proprio ciò che il fordismo teneva ben lontano dal campo di battaglia nel suo confronto di classe – appunto le anime dei lavoratori – ora entrano in un campo di fungibilità interagente ma subalterna con la macchina dell’informazione. La quale per suo verso, accumulando quantità d’informazioni alfa-numeriche sulla base del linguaggio binario, dell’alternanza cioè di zero ed uno, riproduce il mondo reale eliminando da esso qualsiasi ambivalenza e contraddizione dalla realtà secondo la riduzione che è propria di una semplificazione matematico-quantitativa. Matematizzazione e codificazione del mondo che dal lato del lavoratore cognitivo e della sua prestazione richiede la cooperazione di una soggettività istituita più sulla valorizzazione astratto-calcolante del proprio essere che non sulla messa in gioco di tutte le altre componenti del proprio sé.
Ma è proprio in questa riduzione della coscienza e del lavoro mentale di massa ad operazioni precodificate di senso che si colloca a mio avviso il passaggio da moderno a postmoderno, nel senso della negazione della profondità della mente o meglio dello svuotamento di una soggettività, la quale nel momento stesso in cui viene valorizzata e messa in campo, è obbligata invece a rinunciare alla sua autonomia, ad una verticalità di percezione e di giudizio che dovrebbe aver le sue radici nella profondità del proprio corpo emozionale e nello stratificarsi della sua memoria. Lo svuotamento della soggettività, il venir meno della sua profondità ha come effetto speculare la superficializzazione del mondo, un mutamento cioè storico-antropologico del sentire, per cui il mondo, l’esperienza del vivere, la vita sociale e individuale appaiono e vengono percepite necessariamente come una superficie frammentata, fatta di momenti ed eventi fondamentalmente slegati tra loro proprio perché non tenuti insieme da una struttura di profondità. Così il postmoderno, la visione del mondo che afferma, per esprimerci con i termini della filosofia, che l’Essere è linguaggio, che non c’è nessuna realtà-verità oggettiva, che non ci può essere nessun pensiero forte e sistematico, ma che viceversa tutto è segno da interpretare attraverso altri segni, è legittimamente l’ideologia del postfordismo, in quanto è un modo di rappresentare e percepire il mondo che viene prodotto con lo stesso atto della produzione dei beni economici, materiali o immateriali che essi siano.
Marx ci ha insegnato che se il capitale è ricchezza astratta in processo, una delle condizioni fondamentali della sua riproduzione e accumulazione è che astratto, cioè non concreto, bensì controllabile e normalizzabile sia il lavoro che costituisce la fonte di quella ricchezza: secondo quell’organizzarsi tecnologico della produzione, che appunto lui nel Capitolo VI inedito definisce la «
sussunzione reale» del lavoro al capitale. Ad ogni generazione di lavoratori, ad ogni nuova immissione generazionale di forza-lavoro, il capitale deve affrontare, ogni volta di nuovo e con nuove innovazioni tecnologiche, questo problema, per risolverlo e garantirsi la condizione fondamentale della sua esistenza e riproduzione.
Con il fordismo la sussunzione reale, il controllo e la disciplina concernevano il corpo della forza lavoro e rispetto a ciò il punto di vista di classe poteva riconoscersi in un marxismo della contraddizione che teorizzava il darsi di soggettività collettive e sociali contrapposte, in opposizione tra loro, riguardo alla battaglia sul corpo appunto e sulla sua normalizzazione lavorativa. «
Contraddizione» perché la normalizzazione della forza-lavoro si compiva attraverso un’ortopedia del corpo operaio imposta con costrizione dall’esterno e dalla forza del macchinismo. Con il postfordismo e l’accumulazione flessibile la sussunzione reale di Marx concerne, come dicevo, la mente dell’erogatore di lavoro. Ma ciò significa – e questo snodo io credo sia essenziale per la comprensione del presente – che, attraverso la colonizzazione della mente da parte dell’informatica organizzata a scopi di profitto viene prodotta e riprodotta, insieme al capitale, una tipologia capitalistica di soggettività. Tale tipologia di soggettività patisce lo svuotamento della sua concretezza di vita da parte dell’astratto capitalistico e della sua tecnologia e contemporaneamente la compensazione di tale svuotamento attraverso il sovrinvestimento, la sovradeterminazione, isterica e imbellettata, della superficie del proprio esperire [Sulla cultura dell’immagine o del «simulacro» cfr. F. Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, tr. it. di S.Velotti, Garzanti, Milano 1989.]. Così mentre partecipa dell’esaltazione ideologica collettiva dell’informatica, della partecipazione a una comunicazione generalizzata e dell’emancipazione dal lavoro che ne dovrebbe conseguire, soffre invece di vuotezza emotiva, di piattezza e d’indeterminatezza d’esistenza.
Di questo nesso tra svuotamento dell’interno e sovradeterminazione dell’esterno – assai più che delle vecchie categorie dell’alienazione e della contraddizione – deve dar conto il nuovo marxismo dell’astratto. E ciò proprio per poter riproporre alla fine, di nuovo, un marxismo della contraddizione, attraverso la formazione di una nuova soggettività, individuale e collettiva, che, a partire dalla mortificazione e dallo svuotamento compiuti dal mondo dell’astratto ai danni del mondo della vita, ritorni a pensare e a praticare il valore epocale della fuoriuscita storico-sociale dal capitalismo.
Ma per giungere a ciò è necessario passare oggi attraverso il marxismo dell’astrazione e rileggere alla sua luce
Das Kapital di Karl Marx, comprendendo che Marx ha fatto, prima che storia, scienza del presente e che questa scienza non si basa sulle volontà e sulle azioni di soggetti individuali, bensì su un fattore impersonale di socializzazione che si chiama appunto Capitale, costituito da una ricchezza non antropomorfa, ma astratta e non finalizzabile a scopi di armonia e di benessere umano, di cui Marx ha codificato la struttura secondo metamorfosi e passaggi, regole finanziarie e produttive, rapporti di subordinazione di classe, la cui natura obbligata s’impone agli attori sociali e individuali che di volta in volta, secondo tempo, luogo, merce e mercato determinati, e se si vuole anche secondo diverse caratterizzazioni psicologiche, svolgono quelle funzioni, invece, di per sé impersonali e rette da una logica in ogni dove eguale. Certo ci sono ovviamente i molti capitali e il passaggio dall’Uno ai molti, dalla configurazione del Capitale in generale ai molti e concreti capitali, costituisce il problema del passaggio dal 1° al 3° libro di Das Kapital, coincidendo con la travagliatissima questione della trasformazione dei valori in prezzi. Ma quel passaggio è problematico per lo stesso Marx, oltre che per la natura incompiuta della sua opera, proprio perché Marx vuole essere fedele all’impostazione del primo libro, alla definizione impersonale e meramente quantitativa che ha dato del Capitale come valore in processo, e continuare a pensare e a concettualizzare l’agire concreto dei molti capitali secondo gli obblighi di regole e proporzioni della creazione e distribuzione di «quantità» di valore, che consegnano gli individui umani, quale che siano le loro capacità d’iniziativa e d’intraprendenza, a vivere solo come personificazioni di funzioni economiche, ovvero, secondo quanto dice Marx, ad essere solo Charaktermasken, maschere teatrali che recitano un copione che già è stato loro scritto e predatato [Sull’uso e il significato di Charaktermaske in K. Marx cfr. W.F. Haug, Charaktermaske, in Id. (a cura di), Historisch-Kritisches Wörterbuch des Marxismus, Hamburg 1995, Bd. 2, pp. 435-451.].

4. Una produzione capitalistica di soggettività.

Tra moderno e postmoderno dunque, secondo la tesi che qui si propone, si dà discontinuità, non quanto a modo di produzione e a formazione economico-sociale, bensì quanto a tipologia di lavoro astratto erogato e quanto ad effetto generale di feticismo che la ricchezza astratta del capitale e la sua accumulazione sono in grado di mettere in atto. Il passaggio da un’accumulazione di lavoro astratto, che mette in scena e in gioco il corpo, a un’accumulazione che mette in scena la mente, conduce infatti il capitale a una sorta di accentuata invisibilità. Al passaggio cioè da una coreografia esterna, fatta di materia e di spazialità, ad una coreografia interna e immateriale, fatta di operazioni e funzioni calcolanti-discorsive. E appunto in tale dislocazione dall’esterno all’interno, il capitale assume una configurazione sempre meno sensibile-percettiva, per inaugurare una modalità d’esistenza più impalpabile e virtuale. E’ il fantasmatizzarsi del capitale, il suo farsi puro spirito, come realizzazione di una tecnologia e di un’organizzazione di sé ancor più adeguati al suo concetto, secondo la definizione marxiana di ricchezza astratta – cioè non confinabile in nessuna materia particolare – che accumula se stessa.
A tale farsi interiore e fantasmatico del capitale, a tale suo smaterializzarsi e rendersi pressoché invisibile, corrisponde, come abbiamo detto, un’eccesso di visibilità nella superficie delle cose e dell’esperire. La tecnologia informatica conduce infatti a un tale svuotamento-colonizzazione della mente da parte dell’astratto da privarla della propria dimensione di profondità e di renderla funzionale alla sola dimensione di acquisizione-elaborazione di dati esteriori. Per cui all’interiorizzarsi del capitale si accompagna una produzione capitalistica di soggettività
[Per l’introduzione di questa espressione cfr. D. Balicco, Non parlo a tutti, Franco Fortini intellettuale politico, manifesto libri, Roma 2006.] capace di esperire il mondo solo nella sua trama di superficie, quale serie di eventi e di fatti, che, senza rimandare a nessi più interni, si concludono nell’attimo appariscente della loro vita accidentale e seriale.
La produzione capitalistica di soggettività, attraverso la nuova tipologia dell’accumulazione dell’astratto, produce dunque una soggettività esposta più al dominio della quantità che non all’esperienza della qualità. Cioè più un io che si fa spettatore e fruitore di pezzi di mondo sciolti da ogni vincolo reciproco che non un io capace di sintetizzare e riunificare il proprio esperire attraverso valenze significative di relazione.
E’ un tipo di individualità definibile – in conformità all’orizzonte storico del capitale-quantità – come un «
io-quantità», ben esplicabile attraverso la categoria hegeliana della cattiva infinità, in quanto io che, non riuscendo a padroneggiare, attraverso sintesi, la molteplicità del proprio mondo, interno ed esterno, è destinato a trascorrere in «un assoluto divenir altro», in un allontanamento da sé che si traduce nell’essere colonizzato dall’«esteriore».
Vale a dire che, con la produzione capitalistica di soggettività, si genera un individuo catturato più dall’esterno che non dall’interno e incapace perciò di far riferimento alla propria interiorità emozionale come luogo fondamentale, in ultima istanza, di valutazione e di sintesi del proprio vivere. E dove solo la sovradeterminazione retorica e artificiale, «isterica» è stato giustamente detto, di un mondo esterno, frantumato in immagini di superficie, compensa, sul piano degli affetti, l’eclisse di questo fondamentale senso interno. E’ l’individualità postmoderna che, priva dell’interiorità dell’emozione e della memoria, trasferisce l’investimento affettivo, rimosso se non addiritura forcluso, nella sovradeterminazione, imbellettata ma vuota, del mondo esteriore.
Ora appunto per comprendere le conseguenze di un’erogazione costante di attività astratta sulla soggettività astratta, nella quale viene meno ogni capacità di dar senso e forma profonde al proprio agire, – per porre come problema fondamentale dell’oggi il nesso tra eclisse dell’emotività e suo trasfert sull’esterno di un mondo ridotto a pellicola di superficie – il marxismo dell’astratto obbliga ad abbandonare il marxismo della contraddizione e dell’antropologia semplificata del giovane Marx, per il quale alienazione e sfruttamento dell’essere umano non possono non generare una forza sociale rivoluzionaria, pronta a recuperare la sua essenza e dignità conculcata e a contraddire l’assetto economico e politico dominante.
Questa teoria meccanica e automatica del conflitto sociale nasce, nel Marx prima del
Capitale, dalla valorizzazione indiscussa dell’homo faber, quale soggettività indiscussa e prometeica del materialismo storico, e da una conseguente visione delle forze produttive come elemento comunque progressivo e accumulativo della storia umana. Per cui a muovere dalla centralità dell’uomo produttore e dalla sua sempre più dispiegata e collettiva produttività non potrebbe non darsi, in presenza di rapporti sociali di proprietà e di distribuzione privata, un inevitabile configgere tra la socialità del produrre e l’appropriazione individualistica di una ricchezza collettivamente generata. Per dire insomma che nel Marx della contraddizione, quale istituzione fondativa della società moderna, opera la mitologia di un soggettività umana, fabbrile e comunitaria, presupposta al concreto svolgersi delle realtà storico e sociali [Cfr. su ciò E. Screpanti, Comunismo libertario. Marx, Engels e l’economia politica della liberazione, manifestolibri, Roma 2007, pp. 32-44. Sull’organicismo e il comunitarismo del giovane Marx, che assegnano, a ben vedere, una fondazione spiritualistica al suo preteso materialismo mi permetto di rinviare al mio Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri, Torino 2005], che non può non costituirsi come opposizione e alterità irriducibile a qualsiasi relazione pratico-economica che presuma di tradurla da soggetto in oggetto, da soggetto in predicato del proprio agire e del proprio creare ricchezza. E quando il Marx maturo in un celebre passo dei Grundrisse afferma che il lavoro è il «non-capitale» [K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), op. cit., p. 244.], torna ad assegnare al lavoro lo statuto di essere per principio altro, ossia ontologicamente eterogeneo e antagonista rispetto al capitale e alla sua pretesa di dominio incontrastato e assoluto.
Invece il passaggio alla tipologia dell’accumulazione flessibile sottrae a mio parere ogni legittimità al paradigma della centralità operaia, non tanto o non solo nel senso della riduzione drastica del lavoro manuale nell’ambito dei settori economici tecnologicamente più avanzati, quanto e soprattutto nel senso socio-politico dell’esistenza di una classe dotata, malgrado la violenza dello sfruttamento e dell’espropriazione cui viene sottoposta, di un’autonomia di origine e di funzione che la renderebbe comunque eccedente rispetto alla totalizzazione capitalistica. Il postfordismo non toglie la centralità del nesso forza lavoro-capitale come chiave di volta della società contemporanea ma toglie l’illusione di una forza lavoro quale per definizione soggettività collettiva e antagonista. Anzi pone una realtà paradossalmente rovesciata, quale quella di una forza lavoro mentale che presume di sapersi soggetto, non a dispetto e in opposizione, ma proprio nella coincidenza con il suo svuotamento e il suo essere reso oggetto.
Per cui, senza dimenticare nulla di un secolo di lotte dell’operaio fordista e dell’enorme permanenza del lavoro manuale nell’attuale economia-mondo, quello che qui preme sottolineare è che, nel passaggio dal fordismo al postfordismo, il capitalismo a base tecnologica informatica rende a sé più facilmente interno, ed omogeneo al proprio processo di valorizzazione, il lavoro. Possiamo aggiungere, non reprimendo o violentando la soggettività, bensì impedendole di nascere e costituirsi in quanto tale. O per dir meglio, negandola proprio attraverso la messa in scena di un processo fittizio di soggettivazione e la valorizzazione di null’altro che la sua medesima silhouette.
Ma affermare questo, non può non avere, com’è evidente, conseguenze profonde quanto a decostruzione/ricostruzione dell’intero apparato categoriale di Marx. Giacché l’espulsione o la marginalizzazione della categoria della contraddizione rispetto alla centralità di quella dell’astrazione implica il rifiuto di ogni soggettività presupposta, qual è quella che invece a mio avviso continua ad operare in tutta l’opera di Marx. Ed implica, a muovere dalla cruda realtà della nostra moderna postmodernità, l’assunzione in tutta la sua più ampia serietà del Capitale quale totalità, che produce, come si diceva, il triplice piano dei beni mercantili, dell’asimmetria delle disuguaglianze sociali, e dell’immaginario dissimulatorio attraverso cui quella asimmetria deve essere negata e coperta. Ricordando, a chi critica tale analisi di reiterare il vecchio discorso sul totalitarismo dell’integrazione capitalistica della scuola di Francoforte, che autori come Adorno, Horkheimer, Marcuse non hanno fatto mai del processo di lavoro e dello specifico uso capitalistico della forza-lavoro il luogo generativo della socializzazione e di una totalizzazione inclusiva persino della produzione delle forme di coscienza, interessati com’erano più al capitalismo della circolazione, del feticismo della merce, dell’omologazione dei consumi e dell’industria culturale.
Invece io credo che, muovendo dal modo in cui l’astratto pervade oggi e svuota le nostre vite consegnandole alla compensazione isterica di un fantasma di soggettività, s’illumina di verità, con un potente effetto di retroazione storica, proprio la teorizzazione marxiana di
Das Kapital come soggetto, di fondo unico e dominante, della storia moderna in quanto accumulazione, tendenzialmente senza fine, di ricchezza astratta. A patto però di porre questo Marx appunto contro il Marx della contraddizione operaia e proletaria, della soggettività presupposta dell’homo faber, del socialismo come esito necessario di una filosofia della storia fondata sullo sviluppo delle forze produttive, della concezione materialistica della storia come supposto predominio in ogni fase della storia e in ogni formazione sociale della materia di contro allo spirito. A patto cioè di liberarci della pretesa facilità di una contraddizione oggettiva e di collocarla invece nell’animo e nella mente della soggettività di Marx, quale certamente genio ed eroe eponimo della modernità, ma pensatore anche multiverso e contraddittorio, e dotato perciò di molte arretratezze accanto a profondissime intuizioni e concettualizzazioni. Senza alcuna intenzione, come talvolta è stato detto, di riscoprire, con il sovrappiù di un filologismo colto e accademico, la purezza originaria e incontaminata, al di là dei marxismi, del suo pensiero. Qui non si tratta di far rivivere, oltre le deformazioni di scuola e di partito, un Marx autentico, ma di far morire il Marx da sempre impari a pensare la modernità a fronte del Marx ancora vivo, anzi ogni giorno ancora più attuale.
Ma appunto pensare ciò che da sempre è vivo e ciò che è morto nell’opera di Marx significa, a mio avviso, liberare la sua matura critica dell’economia, quale scienza di un soggetto astratto e non-antropomorfo, dalle pastoie della filosofia della storia che pure il Moro ha intensamente concepito, quale divenire predeterminato di un soggetto antropomorfo e antropocentrico.
Detto questo, per i limiti di spazio in cui questo intervento va contenuto, non è possibile aggiungere altro e svolgerlo analiticamente. Deve perciò essere rinviata altrove la
pars costruens del discorso: quella volta al futuro e alla configurazione di una soggettività, individuale e collettiva, che possa farsi carico, ma in modo profondamente diverso ed originale, degli ideali di emancipazione e di trasformazione sociale delle generazioni e delle classi subalterne che ci hanno preceduto.
Qui posso solo dire che non potrà darsi ipotesi alcuna di fuoriuscita storica dal capitalismo se non si abbandona il materialismo spiritualistico e fusionale dell’antropologia di Marx e non la si sostituisce con un nuovo materialismo che attinga come sua fonte fondamentale d’ispirazione alla psicoanalisi. Come ho già detto altrove
[Cfr. R. Finelli, Il diritto a una prassi futura, in R.Finelli-F.Fistetti- F. Recchia Luciaini- P. Di Vittorio (a cura di), Globalizzazione e diritti futuri, manifestolibri, Roma 2004, pp. 15-28.], la psicoanalisi ha complicato enormemente l’antropologia dell’umano, perché ha scoperto e teorizzato che prima dell’alterità orizzontale, della relazione cioè con gli altri esseri umani, il principio dell’alterità è interiore e si dà per ciascuno di noi nella compresenza e nell’irriducibilità del corpo alla mente. Ossia nel convincimento che la mente e il pensiero nascano nell’essere umano con il compito primario di dare coerenza e padroneggiare la complessità impulsiva e riproduttiva della vita corporea. E che tale costruzione verticale della soggettività sia, nello stesso tempo, inscindibilmente intrecciata con la sua costruzione orizzontale, quanto cioè a necessità dell’essere riconosciuta, accolta e legittimata da un’altra (o altre) soggettività.
Senza muovere da tale nuovo materialismo, che integra i tradizionali bisogni materiali con il bisogno di ciascuno al riconoscimento della propria irripetibile singolarità, non ci potrà essere, io credo, nessuna proposta antropologica e politica capace di contrastare la messa in gioco della falsa soggettivazione posta in essere dall’astrazione capitalistica. Per questo il marxismo dell’astratto lascia cadere la vieta antropologia giovanil-marxiana e si apre alla fecondazione della scienza antropologica più innovativa del Novecento qual è stata ed è la psicoanalisi. Ma di tutto questo sarà bene argomentare altrove, con spazi e moduli analitici più appropriati.
»
Read more...

17 marzo 2012

«Galtung: licenza di uccidere, su ordine del fascista Obama»

1 commenti
Fonte: Libreidee

- Barack Obama? Il capo di una «nazione-killer», che – per cercare di rallentare il proprio inesorabile declino imperiale – sperimenta un nuovo «fascismo globale», senza frontiere, fatto di terrorismo di Stato e uccisioni mirate ma molto imprecise, con migliaia di vittime civili. Lo afferma l’insigne sociologo norvegese Johan Galtung. In piena crisi, incalzato dai repubblicani, Obama «si rigioca il trucco retorico progressista che lo ha portato al potere nel 2008», anche se appena due anni dopo «si è svelato il bluff», subito punito dal rovescio elettorale delle votazioni di medio termine. Il pericolo? Si chiama fascismo, dice letteralmente Galtung, che avverte: «Ce n’è una varietà nazionale e una globale». Obama spia gli americani violando la loro privacy. E in più, addestra reparti-killer per eliminare segretamente “nemici” in tutto in mondo, americani e non.
Oltre allo «spionaggio massiccio dello stesso popolo statunitense», scrive Galtung in un recente intervento, tradotto dal Centro Sereno Regis e ripreso Barack Obama da “Megachip” l’11 marzo 2012, il giorno di San Silvestro il capo della Casa Bianca, Premio Nobel per la Pace, ha fatto approvare alla chetichella la legge annuale per la difesa nazionale: «Ben dissimulata, è stata ratificata con statuto legale l’esposizione dei cittadini Usa ad arresto arbitrario senza susseguente beneficio d’assistenza legale, e ad eventuale tortura e incarcerazione». Addio al fondamento giuridico dell’“habeas corpus”, scrive Alexander Cockburn su “The Nation” il 23 gennaio. Grazie al “progressista” Obama, se ne va un pilastro dello Stato di diritto. Marchio distintivo di Obama, per Galtung è lo iato fra discorso e azione: «Una chiave al suo fascismo globale: invece di riconoscere i torti della politica estera Usa, nasconde le sue uccisioni extra-giudiziarie». Missioni-killer, con scarso controllo parlamentare, condotte «sotto copertura della Cia e del Pentagono in forse 120 paesi, mediante droni e lo Jsoc», ovvero il “Joint Special Operations Command”, quello delle operazioni speciali.
L’impero Usa sta cadendo, scrive Galtung, e utilizza élite locali per convogliare valore dalla periferia al centro: élite che però sono «malferme in molti luoghi come l’America Latina, spaventate in Africa, dubbiose in Europa e Asia, in azione contro gli Usa in Cina e Russia». Il “fascismo globale” è all’opera, scrive il sociologo norvegese. Secondo il saggista Nick Turse, che cita il “Washington Post”, le forze delle operazioni speciali statunitensi erano distribuite in 75 paesi, rispetto ai 60 alla fine della presidenza Bush. Entro il 2012, rivela il colonnello Tim Nye dello “Special Operations Command”, il numero arriverà probabilmente a 120. Secondo Turse, la direzione congiunta delle operazioni targate Socom «è un sub-comando clandestino, la cui missione primaria è rintracciare e uccidere sospetti terroristi secondo un elenco globale di potenziali vittime, che comprende cittadini americani». La struttura speciale «gestisce una dronecampagna extra-legale di “uccisione-cattura” che un ex-consulente di contro-insurrezione definisce “una macchina antiterroristica quasi a scala industriale per uccidere”».
Il capo uscente del Socom, l’ammiraglio di marina Eric Olson, stratega delle “operazioni speciali”, ha varato il “Progetto Lawrence”, così chiamato da “Lawrence d’Arabia”, l’agente inglese che si era alleato coi guerriglieri arabi del Medio Oriente durante la Prima Guerra Mondiale. Citando Afghanistan, Pakistan, Mali e Indonesia, Olson aggiunge che il Socom ha bisogno di “Lawrence d’Ovunque”. L’autentico Lawrence, osserva Galtung, combatté i turchi per una federazione araba, per poi vedere tradita la sua opera dall’accordo Sykes-Picot e dalla brutale colonizzazione del Medio Oriente. Profondamente disgustato, cambiò nome e morì in un incidente. Ebbene, secondo Galtung, c’è da scommettere che i nuovi “Lawrence d’Ovunque” un giorno non lontano «subiranno lo stesso destino».
Comprensibilmente, lo schema della classica guerra neo-coloniale d’invasione e occupazione è in piena crisi, dopo i “nuovi Vietnam” chiamati Afghanistan e Iraq. «Ed ecco in auge l’uccisione mirata clandestina». Prima arma strategica, i droni: i bombardieri senza pilota «combinano piattaforme d’osservazione e d’arma, e sono diventati molto apprezzati dai militari Usa e alleati», anche se restano «meno precisi delle uccisioni Socom». Stando alle analisi dell’Istituto Brookings, risulta che il rapporto civili-guerriglieri uccisi da missili sparati da droni è di 10 a 1. Secondo questa stima, scrive il “Japan Johan Galtung Times”, sono già stati uccisi migliaia di innocenti: da 2.170 a 2.750 civili. Quasi tremila vittime, come quelle dello storico attacco terroristico dell’11 Settembre.
«Un aspetto cruciale della supremazia morale e dell’eccezionalismo Usa – scrive Galtung – è che le vite degli stranieri contano solo una frazione delle vite Usa, per definizione eccezionali e moralmente superiori». Sicché i droni sono ideali: nessuna perdita americana e nessuna sindrome da stress post-traumatico, non essendoci contatto diretto con le vittime ma solo il puntamento dell’obiettivo tramite computer, anche a migliaia di miglia di distanza. Il drone è l’arma perfetta del nuovo “fascismo globale”, perché funziona e tutto sommato costa poco. «Prima o poi – aggiunge Galtung – i regimi ancora leali all’Impero Usa si sveglieranno», a partire dalla stessa Norvegia, che oggi «contribuisce al finanziamento di un progetto di droni Usa, “Global Hawks”». E forse, chissà, si sveglieranno anche gli americani, che ascoltano il candidato Mitt Romeny riparlare un’altra volta di guerra. La marina Usa intanto si schiera nel Pacifico per contrastare la Cina: altra operazione che assorbirà denaro pubblico. Desolante la fotografia di Galtung: «Un impero in declino, e una nazione-killer
».
Read more...

16 marzo 2012

Alain de Benoist: «Il capitalismo liberale contro la sovranità popolare»

0 commenti
Fonte: Diorama letterario

«Oggi non sono più molti gli uomini di sinistra disposti ad accusare la democrazia di essere una procedura di classe inventata dalla borghesia per disarmare e addomesticare il proletariato, come sosteneva Karl Marx, né gli uomini di destra disposti a sostenere, così come facevano i controrivoluzionari, che essa si riduce alla “legge del numero” e al “regno degli incompetenti” (senza peraltro mai essere capaci di dire esattamente che cosa desidererebbero mettere al suo posto). Fatte salve le rare eccezioni, ai nostri giorni la contrapposizione non è più tra sostenitori e avversari della democrazia, ma esclusivamente tra suoi sostenitori, in nome dei diversi modi di concepirla.
La democrazia non mira a determinare la verità. È soltanto il regime che fa risiedere la legittimità politica nel potere sovrano del popolo. Il che implica prima di tutto che esista un popolo. Nel senso politico del termine, un popolo si definisce come una comunità di cittadini dotati politicamente delle medesime capacità e legati da una regola comune all’interno di un determinato spazio pubblico. Fondandosi sul popolo, la democrazia è inoltre il regime che consente a tutti i cittadini di partecipare alla vita pubblica, che afferma che essi sono tutti chiamati ad occuparsi degli affari comuni. Spingiamoci un po’ oltre: essa non si limita a proclamare il potere (
kratos) del pubblico, ma ha la vocazione a mettere il popolo al potere, a permettere al popolo di esercitare in prima persona il potere.
L’homo democraticus
non è un individuo, ma un cittadino. La democrazia greca fu sin dall’inizio una democrazia di cittadini (politai), cioè una democrazia comunitaria, non una società di individui, cioè di esseri singoli (idiotai, “idioti” nel senso proprio della parola). Individualismo e democrazia sono, da questo punto di vista, originariamente incompatibili. La democrazia richiama uno spazio pubblico di deliberazione e di decisione, che è anche uno spazio di educazione comunitaria per l’uomo, considerato per natura un essere politico e sociale. Infine, quando si dice che la democrazia consente al maggior numero di persone di partecipare agli affari pubblici, si deve tenere a mente che, in tutte le società, quel maggior numero comprende sempre una maggioranza di cittadini appartenenti alle classi più modeste. Da questo punto di vista, una politica veramente democratica deve essere considerata, se non come quella che fa prevalere gli interessi dei più poveri, almeno come un “correttivo al potere del denaro”, come ha scritto Costanzo Preve.
Tuttavia, più si è imposta, più la democrazia si è snaturata. Prova ne sia che il “
popolo sovrano” è ormai il primo a prenderne le distanze. In Francia, l’astensione e il voto di protesta sono stati in un primo momento gli strumenti per esprimere un’insoddisfazione circa la maniera in cui funzionava la democrazia. In seguito, il voto di protesta ha ceduto il passo al voto di disturbo, che mira deliberatamente a bloccare il sistema. Si è così costituita quella che il politologo Dominique Reynié chiama la “dissidenza elettorale”, vasto agglomerato di scontenti e delusi. In occasione dell’elezione presidenziale del 2002, questa dissidenza rappresentava già il 51% degli iscritti alle liste elettorali, contro il 19,4% del 1974. Alle legislative successive, ha toccato il 55,8%. Ebbene: i principali fornitori della dissidenza elettorale provengono dalle classi popolari, il che significa che l’inesistenza civica o l’invisibilità elettorale sono espressione in primo luogo di quegli stessi ambienti ai quali la democrazia aveva conferito il diritto “sovrano” di parlare. Che cosa avverrà quando questa dissidenza sceglierà di esprimersi al di fuori del campo elettorale?
Nel contempo, da anni stiamo assistendo, ma questa volta dall’alto, a uno snaturamento della democrazia da parte di una Nuova Classe politico-mediale che, per salvaguardare i propri privilegi, auspica di restringerne quanto più possibile la portata. Jacques Rancière non esita a parlare di un “
nuovo odio della democrazia”, un odio che potrebbe “riassumersi in una semplice tesi: non vi è che un’unica buona democrazia, quella che reprime la catastrofe della civiltà democratica”. L’idea dominante è che non bisogna abusare della democrazia, altrimenti si rischia di uscire dallo stato di cose esistente.
Uno dei mezzi per snaturare la democrazia consiste nel far dimenticare che essa, prima di essere una forma di società, è una forma di regime politico. Un altro mezzo consiste nel presentare come intrinsecamente democratici alcune caratteristiche societarie, come la ricerca di un accrescimento illimitato di beni e merci, che di fatto sono realtà inerenti alla logica dell’economia capitalista: “
democratizzare” significherebbe produrre e vendere a strati sempre più ampi prodotti dal forte valore aggiunto. Un terzo modo consiste nel tentare di creare le condizioni di una riproduzione in forme identiche del disordine costituito, consacrato come unico ordine veramente possibile, come qualcosa che dipende da una necessità storica dinanzi alla quale chiunque, per “realismo”, dovrebbe inchinarsi (“Il realismo è il buonsenso dei mascalzoni”, diceva Bernanos). È l’ideale della governance, che potrebbe essere definita come una maniera di rendere non democratica una società democratica senza per questo combattere frontalmente la democrazia: non si sopprime formalmente la democrazia, ma si mette in piedi un sistema che consenta di governare senza il popolo, e se necessario contro di esso.
La governance, che si esercita oggi a tutti i livelli, mira a porre la politica alle dipendenze dell’economia per il tramite di una “
società civile” trasformata in semplice mercato. Essa appare perciò, per usare le parole di Guy Hermet, come un “modo di contenere la sovranità popolare”. La democrazia, svuotata del suo contenuto, si trasforma in una democrazia di mercato, spoliticizzata, neutralizzata, affidata agli esperti e sottratta ai cittadini. La governance aspira a una società mondiale unica, chiamata a durare in eterno, giacché la temporalità stessa viene ad essere reificata. Spoliticizzare, neutralizzare la politica, significa infatti collocarne le poste in luoghi che sono dei non-luoghi. L’obiettivo è sopprimere tutte le pesantezze che potrebbero fare da ostacolo alla mancanza di limiti della Forma-Capitale. Diceva Jean Baudrillard: “Il colpo di forza del capitale consiste nell’aver infeudato tutto all’economia”. L’intera società sarebbe così messa a servizio del capitalismo liberale.
Non si tratta, a questo proposito, di sviluppare una teoria cospirativa sui “
padroni del mondo”. La governance non è altro che il risultato logico dell’evoluzione sistemica delle società alla quale stiamo assistendo da decenni. Né si tratta di rappresentare il popolo come un essere “naturalmente buono”, alienato e corrotto da dei cattivi. Il popolo non è privo di difetti. Ma si può pensare, con Machiavelli e Spinoza, che i difetti del volgo non si distinguono sostanzialmente da quelli dei principi – e che, nella storia, sono state soprattutto le élites a tradire. Come ha scritto Simone Weil, “il vero spirito del 1789 consiste nel pensare non che una cosa è giusta perché il popolo la vuole, ma che a certe condizioni il volere del popolo ha più probabilità di ogni altro volere di essere conforme alla giustizia”.
Della Repubblica di Weimar, si è potuto dire che era una democrazia senza democratici. Noi oggi viviamo in società oligarchiche nelle quali tutti sono democratici, ma non vi è più democrazia
».
(Alain de Benoist)
Read more...

11 marzo 2012

«Manovra, sindacati di polizia al governo: vadano loro in Val di Susa a 65 anni.»

2 commenti
I commenti all'articolo che segue sono sintomatici di un certo malessere che le manovre del "governo" tecnico provocano ai lavoratori (anche) del comparto Pubblica Sicurezza.
Eva scrive: «In servizio fino a 65 anni, in missioni fuori area con i figli ancora attaccati al seno (infischiandosene delle leggi a tutela della maternità ;), senza poterci prendere cura dei nostri genitori o figli disabili perchè esistono "prioritarie esigenze di servizio". E' questo il loro modo di trattarci!
Manifestate anche per me, perchè io purtroppo non posso farlo: sono un militare!»; Schuster, nei suoi due commenti, scrive: «Ministeri svegliatevi: capo e comandanti da 600.000 euro all'anno fate per una volta gli interessi della base. Mandate ai nuclei scorta gli anziani prossimi alla pensione con le macchine sfasciate. Ora basta. l'acqua stà bollendo.», e ancora: «Questa è gentaglia che stà mettendo in mutande la povera gente. Loro miliardari fanno quello che vogliono. Nessuno osa toccarli o parlare di loro. Hanno fatto un colpo di stato con l'assenso dei partiti ladroni.
Al governo vogliamo gli operai per togliere ai ladri i soldi rubati. Gliu operai certamente sono più competenti di questi ladroni.
Scendiamo in piazza a protestare fino a quando non risolvono i nostri problemi incluso l'accorpamento dell'Arma alla Polizia oppure la smilitarizzazione dell'Arma.»
Fonte: GrNet.it - Informazione indipendente su sicurezza, difesa e giustizia

"Il tradimento del Governo Monti verso le donne e gli uomini dei Comparti Sicurezza, Difesa e del Soccorso Pubblico è un atto inaccettabile che i Sindacati respingono senza se e senza ma al mittente".
Inizia così una durissima nota unitaria che i sindacati SIULP, SAP, UGL Polizia di Stato, CONSAP, SAPPE, UIL PA Penitenziaria, FNS CISL Penitenziaria, UGL Polizia Penitenziaria, SAPAF, UGL Forestale, Fe.Si.Fo, FNS CISL Forestale, UIL PA Forestale, FNS CISL Vigili del Fuoco, UGL VVF, UILPA VVF inviano al governo "anche a nome di tutti quegli uomini e quelle donne delle Forze Armate e delle Forze di Polizia ad ordinamento militare, ai quali ancora oggi è negato persino il diritto di manifestare", sull'orientamento dell'esecutivo di non fare sconti sulla materia pensionistica nemmeno al personale dei Comparti Sicurezza, Difesa e del Soccorso Pubblico che, in teoria, dovrebbero "godere" degli effetti della c.d. specificità.
"Al totale stato di abbandono, di mortificazione della dignità personale e professionale a cui gli uomini e le donne in uniforme sono costretti ormai da troppi anni - prosegue la nota -, e che è stato reiterato dal Governo Monti nel primo incontro sull’armonizzazione degli aspetti previdenziali dei suddetti Comparti, oltre ad essere l’ennesimo tradimento verso chi sacrifica la propria vita per la difesa delle Istituzioni, della sicurezza interna ed esterna, e la salvaguardia del Paese, rappresenta anche la fatidica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Presentarsi al tavolo, rifiutando ogni confronto con i Sindacati e le Rappresentanze su una materia che è di pertinenza degli stessi organismi e invocare l’omologazione totale del sistema previdenziale anche per questi comparti così come applicato alla totalità dei lavoratori, ancor prima di avere completato la precedente riforma con l’avvio della previdenza complementare, è politicamente miope e praticamente scellerato".
"Dimenticare la specificità e i requisiti oltre alle limitazioni delle libertà individuali di questi lavoratori per il bene del Paese agendo con una mera logica di “amministratore di condominio”, rappresenta un voltare le spalle a chi, come definito dallo stesso Presidente del Consiglio Monti, rappresenta “il cuore e la garanzia dello Stato”."
I sindacati sottolineano "come questo ennesimo tradimento avrà una risposta ferma e massiccia attraverso una manifestazione, ancorché nel pieno rispetto delle regole e delle leggi vigenti, ma che porterà “all’occupazione” di un giorno della città di Roma contro chi, prima in nome di una politica disattenta e oggi in nome di un cinico tecnicismo, pensano di annullare anche il diritto alla democrazia e alla sicurezza dei cittadini italiani. A questi tecnocrati spietati mandiamo a dire che ci andassero loro in Val di Susa a 65 anni a combattere quella che è una vera e propria guerra causata da una incapacità di chi dovrebbe governare il Paese ma in realtà non lo sa fare, a salire sulle scale per soccorrere le persone nei piani alti degli edifici in preda alle fiamme o a fare le missioni di pace all’estero in scenari di guerra".
"Perché è bene che lo sappiano, questo è quello che stanno disegnando per il futuro della sicurezza dei cittadini e del nostro Paese. Per contrastare queste decisioni inaccettabili e per decidere la data e le modalità con cui attuare le manifestazioni di protesta, martedì è stata già convocata una riunione di tutti i sindacati e di tutte le rappresentanze".
"Siamo al capolinea - concludono i sindacati -. È ora che qualcuno si renda conto che il fondo è stato già raschiato sulla pelle dei lavoratori e dei servitori dello Stato, a differenza dei privilegi e degli sprechi delle caste che continuano a prosperare ed è per questo che gli uomini e le donne in uniforme dicono: ora basta! La misura è ormai colma".
Read more...

10 marzo 2012

«Lo stalinismo capitalistico della giunta Monti».

1 commenti

di Costanzo Preve
Fonte: Arianna Editrice

Una riflessione storica politicamente scorretta

1. Fra le sceneggiate neoliberiste della giunta Monti vi sono scene da vera e propria commedia dell’arte. La protesta delle donne operaie colpite deve essere fatta da una rispettabile e ammirevole deputata operaia leghista, mentre gli eredi di Gramsci e Togliatti inneggiano all’imposizione di un neoliberalismo privatizzatore assoluto. Il tecnocrate orecchione Giarda chiama i deputati “company”, rivelando così plasticamente il disprezzo interiore che nutre per la rappresentanza popolare, chiamata “casta”. E si potrebbe continuare. Ma come professore di storia e filosofia ritengo opportuno fare il mio mestiere, e cioè riflettere spregiudicatamente sulle analogie storiche.  
2. L’arroganza neoliberale privatizzatrice della giunta Monti è ormai del tutto svincolata da idee di rappresentanza democratica, non importa se di destra o di sinistra (si ricordi che da tempo io considero obsoleta questa dicotomia, e credo che i fatti mi diano ragione, se appena li si vuole interrogare e interpretare con spregiudicata sincerità). Questo ricorda una analogia storica, la scelta di Stalin nel 1929 di imporre per ragioni ideologiche il suo modello di comunismo. Il 1929 di Stalin e il 2011 di Monti hanno infatti almeno un elemento in comune: in entrambi i casi un insieme di scelte politiche è completamente svincolato da qualunque mandato democratico, ma è legittimato dal riferimento a un universale astratto dispotico, la Storia in un caso (Stalin), l’Economia in un altro (Monti). Paradossale? Certamente. Ma il paradossale è nella storia più frequente dell’influenza invernale. Riflettere per credere.
3. So bene che nel 1929 la decisione di Stalin di nazionalizzare tutto fu dovuta anche a ragioni congiunturali (crisi delle forbici tra prezzi agricoli e industriali, eccetera). Ma la ragione fondamentale delle sue scelte fu un riferimento diretto e non democratico alle presunte Ragioni della Storia, gemelle di quelle Ragioni dell’Economia, cui fa riferimento la giunta Monti e il codazzo di giornalisti corrivi al seguito, fra cui segnalo per particolare impudenza il torinese Gramellini.
Se Stalin avesse sottoposto democraticamente il suo progetto “comunista” nel 1929 al popolo sovietico (quello reale, non quello onirico inventato dai comunisti dell’epoca) certamente esso lo avrebbe democraticamente respinto a maggioranza. Il solo modo di farlo passare era di presentarlo come il destino ineluttabile delle leggi dialettiche della storia, che in quel contesto avevano lo stesso ruolo delle leggi del mercato neoliberale oggi agitate dai pagatissimi mezzibusti televisivi. In questo senso l’università Bocconi di Milano e l’Istituto di Marxismo-Leninismo di Mosca hanno la stessa identica funzione politico-ideologica: si nazionalizza per superiori ragioni storiche, si privatizza per superiori ragioni economiche. In entrambi i casi, non ha senso rivolgersi alle opinioni di ignoranti pecoroni, ignari delle leggi supreme della Storia (Stalin) e dell’Economia (Monti).
Stalin non poteva rifarsi a Marx, perché Marx, morto nel 1883, non poteva prevedere la nuova situazione. Marx aveva previsto che il modo di produzione capitalistico, per la natura illimitata della sua “produzione per la produzione”, si sarebbe esteso all’intero pianeta e avrebbe a poco a poco vinto ogni resistenza (a quei tempi, le resistenze dei modi di produzione precapitalistici; oggi sappiamo anche la resistenza, da Marx assolutamente non prevista, del dispotismo operaio chiamato “socialismo reale”). Ma Marx aveva sbagliato su due punti grandi come la catena delle Alpi: aveva detto che il capitalismo a un certo punto sarebbe stato incapace di sviluppare ulteriormente le forze produttive, laddove invece è esattamente l’opposto, e aveva individuato il soggetto rivoluzionario nella classe operaia, salariata e proletaria, laddove questa classe è nel suo complesso in condizioni normali meno rivoluzionaria dei contadini egizi e sumeri. E quindi il povero Stalin, che non poteva ovviamente ammettere una simile bestemmia, avendo fatto diventare Marx il profeta di riferimento, era costretto a inventarsi “leggi dialettiche della storia”, addirittura tre, totalmente inesistenti, per giustificare la violazione di qualsiasi regola democratica.
La giunta Monti si muove in base alla stessa identica concezione religiosa, con l’Economia al posto della Storia, e con l’università Bocconi al posto dell’Istituto di Marxismo-Leninismo.
4. Mi rendo conto che tutto questo è scandaloso per le anime pie e politicamente corrette, e che per poterlo argomentare con sufficiente precisione dovrei impiegare centinaia di pagine. Ma ve le risparmio, intanto so bene che sarebbero del tutto inutili, perché ormai siamo di fronte a processi di incredibile babbionizzazione, dovuti a decenni di simulazione teatrale Destra/Sinistra, di antifascismo in assenza di fascismo, di anticomunismo in assenza di comunismo, di interventi imperialistici in nome dei diritti umani, di parossismo identitario antiberlusconiano, di polemica contro la cosiddetta “casta”, eccetera. Soprattutto, è incredibile che abbiano cominciato a prendersela con i tassisti, i farmacisti, gli edicolanti, assimilati a corporazioni mafiose e parassitarie, laddove nessuno sembra prendersela con i giganteschi profitti del capitale finanziario speculativo.
Non mi stupisce ovviamente che gli ex comunisti siano in prima fila in questa tragicommedia. Chi ha creduto a inesistenti Leggi della Storia è indubbiamente portato a riconvertirsi e a riciclarsi in credente di altrettanto inesistenti Leggi dell’Economia. Non parlo di personaggi pittoreschi come Franceschini o la Bindi. Costoro sono ex democristiani normalmente riciclati. Parlo dei mercenari ex comunisti alla D’Alema, Bersani e Napolitano, il tipo umano culturalmente predestinato a passare con un doppio salto mortale dall’Istituto di Marxismo-Leninismo all’università Bocconi di Milano.
Se la dialettica hegeliana fosse maggiormente conosciuta , questo passaggio apparirebbe comprensibile e addirittura di facile comprensione. Ma non a caso le facoltà di Filosofia sono state costruite e finanziate per intorbidare le acque con il postmoderno, il pensiero debole, il new realism, la morale astratta kantiana, le inutili dicotomie bobbiane, eccetera. E allora uno dei problemi dialettici più facili del mondo, il passaggio dalle inesistenti Leggi della Storia alle inesistenti Leggi dell’Economia diventa un mistero chiuso da sette sigilli.
Il battage mediatico è asfissiante. Ogni tanto ci sono dissonanze, come le lacrime della tecnocrate Fornero e l’arroganza dell’orecchione Giarda, ma purtroppo manca una cultura che riesca a vedere chiaro in un processo che in realtà è chiarissimo.
Read more...

8 marzo 2012

Scenari di crisi e compiti dei comunisti (di Erman Dovis*)

0 commenti
 {*C.C.PdCI Fed. Teramo}
Un recente articolo di Repubblica ha messo in evidenza ancora una volta come circa 150 multinazionali, (per la maggior parte società finanziarie) controllino il mondo intero, tenendo sotto scacco i mercati e gli Stati stessi. Ciò che il quotidiano non dice, è che per il gioco delle partecipazioni nei consigli d'amministrazione e dell'azionariato nelle società stesse, le grandi famiglie proprietarie di queste multinazionali non sono più di una quindicina. Tutto questo non rappresenta una novità: nella continuità del potere borghese, un pugno di oligarchie industriali e finanziarie manovra incessantemente per assumere il dominio totale di ogni aspetto della vita del paese e dello Stato. Allargano i poteri all'estero, ed attraverso il controllo di banche e multinazionali, speculano, corrompono, accumulano denaro, secondo l'interesse del massimo profitto e contro gli stessi interessi nazionali. Questi poteri sono, e saranno sempre, alla base di regimi forti.
Uno degli aspetti che rafforza il capitale monopolistico è il processo di decentramento produttivo e di delocalizzazione: iniziato nei primi anni del secondo dopoguerra, quando si accentuò ancor di più la concentrazione capitalistica in poche mani nel campo della finanza e dell'industria, l'operazione consiste essenzialmente nel trasferire parte della lavorazione in diverse e più piccole aziende, spesso anche in piccolissime unità produttive a domicilio. Lo scopo è duplice: da un lato i costi vengono notevolmente abbassati, non vi sono limiti sull'orario di lavoro e sulle regolamentazioni in genere ed i pagamenti vengono effettuati a cottimo. Dall'altro si divide e si fraziona fisicamente la classe operaia, minandone la combattività. Gianni Agnelli, in un'intervista concessa all'Espresso nel 1970, ebbe a dichiarare: "la ripresa delle lotte operaie del 1969- 70 ha insegnato alla Fiat che è finito il tempo delle grosse concentrazioni operaie”. In effetti lo sparpagliamento impedisce un'organizzazione operaia coesa ed una omogeneità di pensiero, ed influisce sulla mentalità dell'operaio, che cambia a seconda del suo inquadramento in una grande o piccola azienda, cosi come nella microbottega: nella prima il lavoratore vede il datore di lavoro come il nemico di classe, lo sfruttatore, mentre nelle altre il padrone è considerato "uno di loro". Nell'epoca attuale, segnata dall'accentuarsi violento della crisi di Restaurazione, le contraddizioni tra i gruppi monopolistici speculatori e le masse popolari, si acuiscono addirittura di ora in ora. Il feroce rastrellamento di denaro operato a qualsiasi costo non solo ha gettato nella miseria le classi deboli, ma sta inghiottendo nel vortice della crisi anche la piccola e media borghesia, che viene schiacciata dal capitale finanziario e spinta verso una condizione di proletarizzazione. La concentrazione monopolistica, che si rafforza attraverso la delocalizzazione, il contoterzismo e la destrutturazione produttiva, non lascia margini di manovra: la rapina di denaro liquido in ogni sua forma, la messa a pagamento di crediti insolvibili, il fallimento e la requisizione dei beni come le piccole e medie imprese, che vengono assorbite dai grandi gruppi, sono solo alcuni degli aspetti del terrorismo oligarchico.

Queste situazioni non possono non evidenziarsi anche a livello locale: infatti la violentissima crisi che ha investito il nostro Paese non ha risparmiato la provincia di Teramo, spazzando via dal 2009 ad oggi ben 562 aziende dell'industria manifatturiera,di cui 188 in Val Vibrata.

Nelle città di Giulianova e Roseto degli Abruzzi sono state chiuse 103 imprese, 54 nella sola Martinsicuro, 34 a Tortoreto. Questo processo ha investito in pieno la classe operaia, causando la perdita di ben settemila posti di lavoro in circa quattro anni, determinando uno scenario di autentico dramma sociale. Secondo i dati della Fillea-Cgil, nel settore legno si denuncia una perdita del 40% della forza lavoro dal 2008 ad oggi, la chiusura di importanti fabbriche e la seria difficoltà delle restanti, per un comparto produttivo che dà lavoro ormai solamente a 870 operai circa, mentre le ore di Cig sono aumentate del 295%. Il decremento dei lavoratori occupati nel settore dell'edilizia raggiunge una percentuale del 30%, sempre in rapporto ai dati del 2008, con 1770 posti di lavoro perduti, mentre nel settore manufatti in cemento si registra una perdita occupazionale del 17% rispetto a tre anni fa. I dati forniti dalla Filctem per il settore tessile-abbigliamento sono drammatici per la nostra provincia: dei 12.000 occupati al 2008 non ne restano che 9400 circa, il che significa quasi tremila posti di lavoro bruciati, a cui vanno aggiunti 3.500 lavoratori in mobilità e 6.400 in cassa integrazione. Agli ammortizzatori sociali si fa ampiamente ricorso anche nel settore metalmeccanico, con 1400 lavoratori in stato di mobilità, cassa integrazione e cassa straordinaria. In provincia di Chieti, nel comprensorio Chieti-Ortona-Guardiagrele il tasso di disoccupazione tocca il 18%, e nell'intera provincia sono 14.000 i disoccupati iscritti al collocamento, 2.500 invece quelli iscritti alla mobilità. Nel settore metalmeccanico sono quasi tremila (2800) i posti di lavoro a rischio, mentre si segue con preoccupazione la vertenza per la Sixty di Chieti Scalo, che ha annunciato esuberi tra i 200 e 250 operai su un totale di 440 lavoratori impiegati. La situazione è ormai insostenibile non solo a Teramo, ma in tutta la regione e per gli operai e le loro famiglie tutto questo ha un significato preciso: angoscia, povertà, disperazione. Nell'immediato, occorre una convocazione di tutte le parti sociali per lo sviluppo di un piano industriale concreto, ma questo ovviamente non basta. Il compito dei comunisti è innanzitutto capire cosa accade, maturare una comprensione di classe, organica e dialettica, partendo dalla realtà della lotta tra le classi e non dai desideri individuali che generano astrattismo e spontaneismo. Il Partito Comunista, diretto dall'avanguardia della classe operaia, non segue gli avvenimenti, li precede. Non si accoda al movimento operaio, lo dirige. Seguendo gli insegnamenti leninisti e gramsciani, esso lotta per la trasformazione rivoluzionaria della società, educando ed elevando la coscienza di classe delle masse, ed allo stesso tempo combatte per rivendicazioni immediate, per il miglioramento anche parziale delle condizioni generali di vita delle classi deboli. L'unità è lo strumento fondamentale per perseguire tali obbiettivi: se analizziamo con attenzione, è evidente infatti che l'opera di divisione aperta al nostro interno, frutto di opportunismi, revisionismi, ma anche della scomposizione fisica della produzione e dei lavoratori (divisi persino da innumerevoli categorie contrattuali) produce per riflesso una dilaniante frammentazione partitica e sindacale, che politicamente deve essere superata attraverso patti d'unità d'azione, cercando di coinvolgere tutte le forze a noi non ostili. Dobbiamo essere in grado dunque di utilizzare tutti coloro che possono essere utili, per obiettivi a breve, medio e lungo termine. Nei luoghi di produzione, un grande aiuto può venire impegnandoci nella costruzione di comitati unitari, o meglio di coordinamenti, in cui l'influenza dei comunisti sia decisiva a contrastare le rivalità tra varie sigle, gli immobilismi e le rovinose fughe in avanti che la divisione comporta,che spesso limitano la potenzialità della lotta.

La lunga onda di restaurazione, cominciata tanti anni fa, tappa dopo tappa è arrivata al suo traguardo e diffonde oggi il suo nero veleno di morte su tutta la società: distrugge le nazioni, i popoli, il lavoro, la nostra stessa vita quotidiana. La ferma risposta arriverà per mano della classe operaia organizzata, che già ora resiste in ogni nostra provincia e regione e che con dignità e fierezza afferma: “Questa volta no, non passeranno".
{Fonte: http://www.marx21.it/italia/sindacato-e-lavoro/795-scenari-di-crisi-e-compiti-dei-comunisti.html}
Read more...

6 marzo 2012

Monopolismo, crisi generale e fascismo (di Erman Dovis*)

0 commenti
{*C.C.PdCI, Fed. Teramo}

«La strage neonazista di Oslo e quelle recenti di Liegi e Firenze non sono frutto della follia del singolo, e neppure azioni isolate di qualche nostalgico falangista. Esse devono essere inserite in un ampio quadro d'analisi concreto e dialettico, e sono indubbiamente uno tra gli effetti devastanti della gravissima crisi economica scatenata dal monopolismo internazionale, che da un lato accumula illegalmente milioni e milioni di dollari, dall'altro genera scenari di aperto fascismo attraverso autoritarismo, licenziamenti di massa, genocidi criminali,guerre. La caratteristica dei gruppi monopolistici infatti, non è solamente quella di avere l'appoggio del governo borghese e delle leggi che esso emana, ma di prendere il potere fisicamente nelle proprie mani, facendo dello stato uno strumento di dominio assoluto per raggiungere profitti sempre maggiori. La corretta definizione data dal XIII Plenum dell'Internazionale Comunista, stabilisce che il fascismo è "l'aperta dittatura terroristica degli elementi più reazionari,più sciovinisti ed imperialisti del capitale finanziario."
Ciò non significa però che esso si manifesti necessariamente allo stesso modo nel corso delle epoche e dei contesti storici e di classe. Con il crack finanziario del 1873, sorsero in Inghilterra le prime concentrazioni monopolistiche nel settore carbonifero e minerario, determinando le prime esportazioni di capitale. Francia, Regno Unito, Germania si lanciarono in spietate scorribande coloniali in Africa, Asia,Pacifico. La repressione interna fu la risposta alla disoccupazione, ed alla miseria, come descrisse magistralmente Jack London nel suo celebre scritto "Il Popolo degli Abissi".
Negli Stati Uniti d'America i nascenti monopoli presero in mano il paese attraverso speculazioni e corruzione: Jay Gould spese un milione di dollari per corrompere il Parlamento di New York affinchè legalizzasse l'emissione di titoli annacquati, Thomas Edison pago' mille dollari per ogni politico del New Jersey in cambio di leggi favorevoli. le compagnie ferroviarie erano in mano a sei societa', di cui quattro di proprietà della Morgan e due dei banchieri Kuhn, Loeb and Company, che grazie alla corruzione sistematica ottenero dallo stato milioni di ettari di terra senza vincoli, e sempre ricorrendo alle bustarelle impedirono ogni indagine ai membri del Congresso.
John Rockefeller fondo' la Standard Oil Company, e stipulò accordi segreti con alcune compagnie ferroviarie,affidando loro il trasporto del proprio petrolio con forti sconti sulla tariffe, e facendo fallire tutte le ditte concorrenti. Andrew Carnegie, agente di borsa a Wall Street, costruì un acciaieria da un milione di dollari che poi rivendette a J.P.Morgan, il quale riunendo insieme varie aziende fondo' la US STEEL CORPORATION: il magnate costrinse il Congresso ad approvare dazi per tagliare fuori l'acciaio straniero, mantenne in questo modo molto elevato il prezzo della merce alla tonnellata (28 dollari) facendo lavorare duecentomila uomini per 12 ore al giorno con salari neppure sufficienti alla sussistenza famigliare. Si soffocava la concorrenza, si mantenevano prezzi alti e salari da fame sfruttando i sussidi statali. Questa orgia criminale di manipolazioni finanziarie ed arricchimenti illegali produsse la più grave crisi economica del paese, che getto' nella disperazione milioni di cittadini:nel 1893. Seicentoquarantacinque banche fallirono e sedicimila aziende chiusero i battenti, i disoccupati furono più di tre milioni, nessuno Stato votò programmi di assistenza, ed ondate di scioperi si abbatterono sulla nazione, il piu' drammatico dei quali fu quello della Pullman Company, che si risolse con l'intervento dell'esercito federale che represse i moti popolari uccidendo tredici persone. A questa fascistizzazione della società fece contemporaneamente seguito una politica di aggressione coloniale, perchè, come disse il senatore Beveridge "..le industrie americane producono più di quel che gli americani possono consumare, quindi il commercio mondiale deve essere nostro. Sara' nostro."
Le Hawaii furono occupate nel 1893, Cuba nel 1898, le Filippine nel 1901, ed i criminali massacri compiuti vennero denunciati con forza dallo scrittore Mark Twain. La spirale delle contraddizioni, sempre piu' aspre, si risolse con la mattanza devastante della Prima Guerra mondiale, autentica manna per gli stati che dovevano far fronte ad un vasto movimento di protesta operaio. Dall'altro lato però,grazie all'opera straordinaria di Lenin e dei comunisti, si produsse l'evento più importante della storia moderna: la Rivoluzione d'Ottobre e la nascita dell'Unione Sovietica, primo stato operaio della storia, che cambiera' le sorti del genere umano. In Italia, dopo le prime "reazioni" crispine, le avventure in Abissinia e la Grande Guerra, l'avanzata della classe operaia espressasi nel Partito Socialista intorno al gruppo di Torino dell'Ordine Nuovo produrrà anni di profonde lotte di classe e la nascita del Partito Comunista d'Italia. Le oligarchie stabilirono quindi di fare del fascismo un prodotto organico del capitalismo. Attraverso l'aperta dittatura ed il corporativismo, i fascisti repressero con forza le organizzazioni operaie prima, poi quelle democratiche, fino alla piccola e media borghesia e via via tutto il resto. Ogni singolo aspetto della vita del paese era oggetto del controllo asfissiante degli interessi dei monopolisti come Fiat e Pirelli, che decidevano della distribuzione delle materie prime nel paese, del bilancio statale, della produzione e del lavoro. I grandi magnati dell'industria e della finanza, i loro diretti rappresentanti vennero inseriti negli organi dello stato.112 senatori e 125 deputati, e numerosi membri del direttorio del partito fascista ricoprivano importanti ruoli operativi nelle più note società italiane. Dittature come quella italiana furono installate in buona parte d'Europa: Spagna, Germania, Bulgaria, Romania, Polonia, Ungheria, mentre le contraddizioni sempre più violente tra gli imperialismi e tra i capitalismi, la grande depressione ma anche la voglia di eliminare una volta per tutte il comunismo porto' alla seconda guerra mondiale. La belva nazifascista venne sconfitta grazie al grande sacrificio dell'Armata Rossa, del popolo sovietico e dalla forte e diffusa resistenza partigiana. Sulla scia di questa impresa si formarono nuovi stati socialisti in Europa, si svilupparono guerre di liberazioni popolari, si affermo' una generale e consapevole coscienza antifascista. La straordinaria vittoria dell'esercito popolare guidato dal Pcc di Mao Tse Tung in Cina, sembro' orientare definitivamente buona parte del mondo in un'ottica di democrazia, pace e progresso. Tuttavia la Restaurazione borghese era stata si sconfitta ma non schiacciata, e si riorganizzò, questa volta legandosi all'imperialismo americano, uscito rafforzatissimo dal secondo conflitto mondiale. La strategia venne impostata sul doppio binario: da una parte si alimentarono frizioni, divisioni, tendenze isolatrici all'interno del vasto movimento comunista internazionale, mettendo gli stati socialisti uno contro l'altro. Si procedette in questa maniera anche all'interno dei partiti comunisti occidentali, per depotenziarne la forza, depistarli e renderli sempre fragili. Dall'altra si trattava di avanzare a tutti i costi sullo scacchiere strategico internazionale, conquistando nuove posizioni, instaurando dittature terroristiche e coloniali, e reprimendo le legittime ambizioni democratiche dei popoli. La Corea del Sud divenne un protettorato yankee, con un ridicolo fantoccio messo al potere, che instaurò, per conto delle multinazionali, una dittatura terroristica. Il Vietnam fu vittima di aggressioni imperialiste di ogni sorta, il governo iraniano di Mossadeq, colpevole di aver nazionalizzato il petrolio, venne abbattuto da un astuto complotto della Cia, e le ricchezze nazionali consegnate alle compagnie petrolifere americane. In America Latina, il governo nazionalista riformista di Arbenz, eletto con una schiacciante maggioranza, decise di procedere ad una riforma agraria che intaccò gli interessi del potente gruppo monopolista della UNITED FRUIT (che ancora oggi possiede in questo paese migliaia di ettari di terreno). Il legittimo governo fu abbattuto con un colpo di stato militare, e venne avviata una spietata dittatura fascista per conto delle multinazionali e dei proprietari terrieri,che aboli' tutte le riforme democratiche scatenando una terribile repressione popolare. Dal Nicaragua di Somoza al Cile di Pinochet, dallo Zaire di Mobutu al Perù di Fujimori, dall'Indonesia di Suharto all'Argentina dei militari, l'imperialismo persegue ferocemente i suoi sanguinari obbiettivi di dominio, in una corsa a tappe che non concede soste nel suo criminale procedere. Sul piano interno, da un lato vengono fatte concessioni riformiste, alimentando illusioni elettoralistiche, dall'altro si fa ricorso ad un continuo uso della violenza stragista, partendo da Portella della Ginestra nel 1947, passando per Reggio Emilia, Piazza Fontana, Piazzale della Loggia, il treno Italicus, la strage di Bologna fino ai giorni nostri. Una ininterrotta scia di violenza combinata con una buona dose di illusioni, e qualche concessione, determinano un certo distacco da un concreto approccio antifascista, annacquando sempre più la coscienza di classe in favore di una non precisata coscienza di massa, e permisero il sorgere di nuove potenti concentrazioni monopolistiche. La nuova grande crisi economica, iniziata nel 1969 con il fallimento in Usa di 14000 aziende assorbite dalle multinazionali, fa entrare il progetto di restaurazione in una fase cruciale:si pianifica la sistematica distruzione delle forze produttive, iniziano le prime delocalizzazioni e destrutturazioni che permettono la disarticolazione e la disgregazione fisica della classe operaia. La fabbrica è scomposta e con essa l'omogeneità di pensiero dei lavoratori. La divisione diverrà la triste e costante realtà che ancora oggi persiste nella sua drammatica attualità. Iniziano inoltre politiche di austerità, di collaborazionismo, di credito a favore delle imprese e di moderazione salariale. Dagli Stati uniti giungerà, ben custodito in una comoda valigetta, un documento denominato "Piano di Rinascita Democratica", autentico manifesto politico programmatico della Restaurazione monopolista per l'abbattimento della Costituzione democratica antifascista e l'instaurazione di un moderno fascismo. Il progetto troverà suo definitivo compimento e forma a partire dal 1994, anno in cui si verifica l'autentico golpe di questo paese:il magnate gellista Berlusconi diviene capo del governo, in alleanza con i fascisti che ritornano al potere. Riemergono nella sostanza i foschi venti reazionari del ventennio. I diversi fattori storici infatti non possono che modificare l'esterno delle cose, la forma, ma il fondamento resta uguale, perchè è dato dai rapporti di classe, che sono gli stessi di allora. Oggi occorre affrontare il problema del fascismo in un'ottica economica mondiale, perchè le nazioni e le loro economie non sono più entità autosufficienti, ed il dominio del monopolismo e della finanza di Wall Street è divenuto assoluto. Abbattuta l'Unione Sovietica e le democrazie socialiste europee, abbattute le poderose organizzazioni operaie ed i partiti comunisti (grazie anche al revisionismo, è bene affermarlo con forza) in una fase attuale segnata da un acutizzarsi della gravissima crisi economica scatenataci contro il fascismo ha ormai abbandonato ogni remora e parvenza di mediazione politica, per diventare emanazione chiara e netta del monopolismo finanziario e speculatore, che rastrella illegalmente ed impunemente ogni sorta di ricchezza spingendo verso il baratro le masse popolari, la borghesia stessa, l'intera umanità. In particolar modo i popoli del sud del mondo sono colpiti in pieno dalla violenta sopraffazione da parte del pugno di oligarchi che possiede il pianeta, e di cui l'imperialismo Yankee e la Nato sono fedeli servitori e bracci armati. La violenta repressione in Yemen, Bahrein, Palestina e la criminale aggressione all'Iraq, Afghanistan, Libia sono solo alcuni dei piu' recenti esempi a riguardo, che mostrano l'efferatezza, la spregiudicatezza ma anche il cinismo di questo fascismo terrorista, presentato mediaticamente come un nuovo sistema di valori, capace di farla finita con questi "politici e con questa casta", e contro la minaccia dell'invasione islamica. E' necessario dunque analizzare questo fenomeno in una lettura organica e storica delle questioni anzichè limitarsi a guardare un aspetto esterno ed isolato delle situazione. Di fronte a questo scempio, la sola forza che potrà salvare l'umanità è la classe operaia, che non starà a guadare. Darà certamente una risposta, come la diede quarant'anni fa occupando le fabbriche, presentendo la forte ondata di restaurazione che si stava abbattendo sulla società. Oggi deve però vincere una debolezza data dalla divisione politica dei comunisti. Gli eventi precipitano, la lotta di classe galoppa con una foga impressionante, la contraddizione principale ed ormai evidente è tra la borghesia monopolista e il proletariato. La stessa classe media è spinta sulla via della proletarizzazione. Nostro dovere è capire cosa accade per rispondere adeguatamente, con analisi concrete di classe, tenendo sempre alti i valori dell'antifascismo, della pace, del comunismo.»

{Fonte: http://www.marx21.it/storia-teoria-e-scienza/storia/664-monopolismo-crisi-generale-e-fascismo.html}
Read more...