"Non siamo pacifisti. Siamo avversari della guerra imperialista per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell'interesse del socialismo."
(Vladimir Ilič Ul'janov, Lenin, 1917)

23 novembre 2010

"PerDavvero" una statua di Cavour a Teramo? (di Erman)

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"Lo stato italiano (leggasi sabaudo) è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti".
(Antonio Gramsci, Ordine Nuovo, 1920)                                  


"Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone, bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone".
(Fabrizio De Andrè, Il Testamento di Tito)


La siesta post-pranzo è salutare. Dopo quattro ore di imballaggio e la mensa, cosa c'è di meglio che rilassarsi un'oretta coi colleghi leggendo i giornali?
E succede che, tra commenti sul rigore di Ibra e le ruberie romaniste a Torino, la mia attenzione si sofferma su un articolo del Messaggero Abruzzo: "Politiche culturali a Teramo, secondo i "PerDavvero" è tutto da rifare".


Uhm...mi incuriosisco, continuo la lettura e capisco che la polemica con la giunta monta per il luogo scelto per il posizionamento della statua di Garibaldi: sembrerebbe che il valente eroe meritasse ben altro luogo ed il suo fiero sguardo dovesse essere rivolto verso Roma, e non verso Giulianova... Sinceramente sorrido, credo che forse Teramo abbia problemi piu' immediati, ad esempio la questione del Teatro Romano (se vogliamo rimanere in tema culturale), e tuttavia a parer mio il vero problema non è il posizionamento della statua, ma la presenza o meno della statua stessa.
Mentre proseguo la lettura,mi accorgo che la digestione si fa difficile, forse perchè appuro che per i "PerDavvero" (questo nome ti dà una sensazione di incompletezza, come una frase a cui manca una parte, mah!) tutto cio' è un affronto al buon senso, e per nulla domi, vorrebbero che la citta' si dotasse di altre statue celebrative del Risorgimento: Cavour ed il re Vittorio Emanuele III, addirittura a cavallo. Cavour....ed un re......occupante...
Sarà stato perchè non avevo nulla da fare, e la siesta era andata a farsi benedire, ma ho cominciato a riflettere, ed ho pensato che si, tutto cio' è davvero un affronto al buon senso, una pagliacciata negazionista che falsifica la storia e la trasforma in farsa.
Ho pensato che le statue di Garibaldi, di Cavour e del re siano provocazioni gravissime per una citta' che ha pagato un altissimo tributo di sangue per celebrare la liberta' sabauda, ho pensato ai 546 morti ammazzati, ai paesini dati alle fiamme, alle donne violentate ed ai bimbi assasinati, ai 147 morti a L'Aquila, alla ferocia del generale piemontese Cialdini, criminale di guerra.
La furiosa repressione dei colonialisti, la costruzione dei campi concentrazionari per i meridionali, una cultura cancellata, il Sud in miseria ed il dramma dell'emigrazione.
Ho pensato che tutto questo non si potra' mai chiamare Risorgimento, e che la terminologia spesso adottata serve a dirottarci dal vero significato dei fatti.
In questo paese non è mai avvenuta l'Unita' nazionale, perchè il processo politico unitario che si era pazientemente messo in moto venne paradossalmente e barbaramente stroncato dall'invasione piemontese, che ha strumentalizzato l'idealismo di Garibaldi per depredare il Regno delle Due Sicilie, il Banco di Napoli, i Cantieri, l'industria, per schiavizzare un popolo.
Paradosso ed ironia della sorte: il fresco stato "unitario" veniva regolato al Nord dallo Statuto albertino ed al sud dall'infame Legge Pica!!!
Mi sono detto che è proprio vero.....la storia è come un orologio, e le lancette fanno sempre lo stesso giro, e trovo interessante notare che mentre ieri, per motivi economici, si invase il Meridione, oggi per gli stessi motivi si vuole scaricare quella meta', buttarla via.
Ma non attraverso le buffonate leghiste, quelle servono a legittimare la vera scissione che a poco a poco si compie: si condannano le sparate leghiste ma intanto la cricca di potere bipartisan procede con delocalizzazioni, privatizzazioni, federalismi di ogni sorta ed in ogni ambito.....ed il distacco di fatto è già avvenuto.
Questo pensavo in preda ad una irreversibile gastrite, accingendomi a ricominciare il mio turno di lavoro.
Ed anche alla responsabilita' che un'associazione culturale ha nei confronti dei cittadini, per non lasciarli senza strumenti di comprensione. Per non lasciarli soli.
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16 novembre 2010

"Le lotte rivendicativo-sindacali non rappresentano la garanzia di procedere in una direzione emancipativa" (a cura di Lurtz)

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Condiviso via Facebook a cura di M.C.S.

«Non c’è dubbio che, dal punto di vista della critica economico-sociale al capitalismo da parte delle classi popolari, operaie, salariate e proletarie, queste classi siano state almeno per un secolo (e forse per due) l’insediamento storico e sociale della sinistra. Non solo non lo nego, ma lo ammetto apertamente.
L’aspetto emancipatorio di questa critica è strettamente legato all’orizzonte del superamento del capitalismo. Parlando di superamento del capitalismo non entro qui nel merito della preferibilità della via pacifica o della via rivoluzionaria, del riformismo gradualistico o dell’insurrezione, eccetera. Do per scontato che questo presupponga sempre l’analisi della situazione concreta (Lenin) e non possa certo essere “dedotto” da dicotomie bipolari. Su questo punto “concretistico” Losurdo mi darà pienamente ragione.

La questione è un’altra. In breve, la sinistra continua ad avere una funzione emancipativa se abbandona completamente l’orizzonte anticapitalistico? A mio avviso la risposta è no. Decisamente no. Ma è appunto ciò che ha fatto la sinistra reale (non quella idealtipica) dell’ultimo ventennio - trentennio. E l’aspetto più sporco di questo abbandono sta nel fatto che questo abbandono è stato fatto in silenzio ed ipocritamente, coperto da urla massimalistiche, antiberlusconismo identitario, sostituzione della classe operaia con la magistratura, simulazioni di scontri a bastonate di centri sociali con gli eterni “fascisti” eccetera.
Le classi popolari, operaie, salariate e proletarie hanno continuato a “dare fiducia” a partiti che accettavano integralmente l’orizzonte capitalistico della società. Si tratta di un fatto storico, non ideal-tipico. Qui non ci si può rifugiare nel mondo incantato e virtuale delle dicotomie. Ed ora, arrivata la crisi, non si limitano a pagare i costi della crisi (che sono strutturali, e quindi né di destra, né di sinistra), ma devono continuare a soffiare nei fischietti, battere i tamburi e salire sui tetti e sulle ciminiere, invocando l’intervento salvifico dei cinesi, degli enti locali, del Berlusca, eccetera. Mi chiedo dove stia in questo l’elemento della Emancipazione (con la “E” maiuscola).
Non mi si fraintenda. Non intendo certamente criticare la classe operaia perché mostra la sua totale e pittoresca impotenza. Ma se io affermo di essere “idealmente” al suo fianco contro i capitalisti (e tral’altro lo sono completamente), tutto ciò non elimina il problema storico oggettivo di cui stiamo parlando, che non è rivendicativo - sindacale, ma è storico. E lo formulerò così: classi totalmente impotenti possono continuare a rivendicare un ruolo attivo nella lunga lotta storica dell’Emancipazione contro la De-Emancipazione? Nei seminari filosofici di Losurdo certamente sì. Nella storia reale c’è invece di che pacatamente dubitarne.

E tuttavia i rilievi del paragrafo precedente toccano solo il problema della insufficienza emancipativa della sinistra, ma non giungono fino al dubbio iperbolico ed alla bestemmia massima per cui sul piano culturale (egemonico, avrebbe detto Gramsci) la sinistra non solo non è un fattore emancipativo, ma è un fattore attivo ed operante di de-emancipazione. Il passaggio dal nobile Gramsci all’ignobile Luxuria non è solo il frutto contingente delle scelte di un narcisista distruttivo fuori controllo (all’anagrafe Fausto Bertinotti), ma è il logico precipitato di trent’anni di corruzione culturale generalizzata.»

(Costanzo Preve, Sempre su Sinistra e Destra. Rilievi fraterni alla risposta a Costanzo Preve di Domenico Losurdo)
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13 novembre 2010

La storia dell'uguale più uguale dell'altro (di Lurtz)

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Questa volta un post "anomalo", ma solo perché lo spunto, da cui traggo alcune conclusioni, mi viene dalla seguente "letterina", letta nella rubrica "Per posta" di Michele Serra sull'ultimo numero de "Il Venerdì" di Repubblica.
Scrive la signora L.C.G. di Milano: «Premetto che sono una affezionata lettrice del vostro magazine che dà un'ampia panoramica su diversissime problematiche e situazioni. E' veramente un giornale intelligente ed occorrerebbero tanti altri aggettivi per dire ciò che rappresentate, ma che non sto ad elencare, in quanto penso che siate consapevoli della vostra bravura. Mi permetto di dirvi però che non avete rispettato la "differenza sessuale" descrivendo la fotografia di una bambina, l'attrice Shirley Temple, definendola "bambino prodigio". Non potevate mettere "bambina prodigio"? Non esiste dunque un prodigio al femminile? E' come quando si scrive o si dice il ministro tal dei tali e poi si scopre che è una Maria, Giuseppine o Teresa. Forse sarebbe il tempo di usare i titoli al femminile. Buon lavoro e buone vendite. Con i miei migliori saluti.»

Invito i lettori di questa "letterina" a trattenere le lacrime che avrà suscitato la risata, perché nonostante l'apparenza, la questione che la solerte (...ma, senza offesa, anche un po' fancazzista, digiamolo....) lettrice pone è attualissima e richiede attenzione (tra l'altro, quella che l'educato signor Serra non le riserva!)

(Mi scuso in anticipo per la brevità e la sommarietà con cui tratterò l'argomento, ma la maniera comunicativa internettiana non permette approfondimenti troppo lunghi.....)

Ritenendomi comunista, non posso che criticare e avversare questa branca, della religione laica del Ventesimo Secolo (la postmodernità), meglio nota come Differenzialismo.
Nell'ottica postmoderna, appunto, la questione della "differenza", sessuale soprattutto ma non solo, svolge una funzione di primo piano in quanto primo tratto distintivo dell'individuo della società iper-individualista.
L'insieme delle peculiarità proprie di ogni singolo individuo, ovvero le caratteristiche che determinano biologicamente e psicologicamente la singolarità appunto della persona all'interno del gruppo umano, nella concezione differenzialista assumono, ognuna, un'importanza propria rispetto ad ognuna delle altre, trasformando l'essere umano, la persona, da "involucro" dell'insieme a "contenitore" delle singole peculiarità.
Per meglio intenderci, un Mario Rossi non sarà più Mario Rossi, uomo, bruno, carnagione chiara, settentrionale, miope, eterosessuale, geometra, sposato, quarantenne. Ma diventerà Mario Rossi maschio, Mario Rossi bruno, Mario Rossi bianco, Mario Rossi lombardo, Mario Rossi cremonese, Mario Rossi settentrionale, Mario Rossi miope, Mario Rossi eterosessuale, eccetera eccetera all'infinito. E, in ogni sua singola caratteristica peculiare, rientrerà in una propria categoria d'appartenenza.
Tutto ciò, a mio parere, non ha nulla a che vedere con la, giusta, richiesta di individuazione, nella totalità, della singolarità dell'individuo.
Questo modo di procedere segue perfettamente i principi della società capitalistica, al cui interno esiste una forma di eguagliamento e una forma di differenziazione. Per cui si è, tutti, consumatori e produttori, ma si è anche produttori di merci specifiche e singole e quindi consumatori di merci specifiche e singole. Ognuno con richieste e necessità proprie e particolari.
In questo modo gli esseri umani stessi sono ridotti a merci e sentono quindi il bisogno di differenziarsi dalle altre merci umane.
Ma qui, come suggerisce il proverbio, casca l'asino.
Perché in una società che spinge verso la globalizzazione dei consumi, differenziarsi equivale a omologarsi.
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4 novembre 2010

Tu ci metti solo il collo, alla corda e al sapone ci pensano loro. (di Lurtz)

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Discorrevo con una persona del più e del meno e questa ha posto un dilemma: "Gas, Luce, Telefono, Spazzatura, Affitto, poi si deve mangiare poi la benzina per la macchina.....quante spese. Ma come fa uno in cassintegrazione ad arrivare a fine mese?"; "...bhè...", rispondo, "...è semplice! Non ci arriva. Oppure si ingegna.
Non paga le bollette o non paga l'affitto. Oppure va a fare lavoretti supplementari, ovviamente in nero col rischio di essere licenziato se lo beccano. Oppure ancora, chiede un prestito".
"...Eh, si...però il prestito poi lo deve restituire...", incalza l'interlocutore; "No problem. Vorrà dire che chiederà un prestito per pagare il prestito, e così via fino a quando non muore di vecchiaia o si suicida perché non ha più nemmeno i reni da vendere!".
Troppo cinico? Troppo duro? Esageratamente catastrofico?
Non credo.
Perché ahìnoi questi "risultati finali" sono diventati l'ordine del giorno, ma la vera catastrofe è che siano considerati come "problemi marginali".
Però l'eccesso, quando diventa quotidianità, non può più essere considerato marginalmente.

Prima che cambiassi canale a causa del disgusto insopportabile che mi ha provocato, durante la puntata della scorsa settimana de "L'Infedele", il programma di approfondimento de La7 condotto da Gad Lerner, uno degli ospiti, Giuseppe Guzzetti presidente della Fondazione Cariplo, esaltava la funzione sociale necessaria che le organizzazioni come la sua rivestono nella moderna società.
In un mondo non ipocrita la definizione corretta sarebbe: strozzini. Nella nostra società, capitalista e in perenne concorrenza, invece tutto ciò è terreno legale di profitto.
E' un'opportunità.
Dal "loro" punto di vista. 

Dall'altro punto di vista, invece, è l'anticamera della morte. 
Salvo, ed è questa la via che ci obbligano a percorrere, arrendersi ad una vita di debiti.

Per chi volesse approfondire l'argomento:
«A proposito di strozzini», di Salvatore Cernigliaro
«Il debito in busta paga», di Marco Gallicani
«Banche, strozzini legalizzati», di Raffaele Bruno


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