"Non siamo pacifisti. Siamo avversari della guerra imperialista per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell'interesse del socialismo."
(Vladimir Ilič Ul'janov, Lenin, 1917)

25 agosto 2010

La legge elettorale e la democrazia

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(Segretario Sezione A.N.P.I. don Pietro Pappagallo, Esquilino-Monti-Celio Roma)

Con gli stessi argomenti di facili quanto inascoltate profezie di illuminati uomini politici della nostra Prima Repubblica, quella nata dalla Resistenza, vengono oggi ripresentate con insistenza pressante le ragioni di un ritorno ad una nuova legge elettorale, a maggior grado di proporzionalità, certo più rappresentativa.
Non si tratta di "tornare indietro", ma di lasciare la strada sbagliata su cui l'Italia si è incamminata diciassette anni fa, infilandosi nel vicolo cieco dell'autoritarismo oligarchico. E diventando, non a caso, progressivamente sempre più povera e meno giusta.
Una donna o un uomo che abbiano oggi trentacinque anni non hanno mai conosciuto altro modo di votare se non questo attuale; non hanno conosciuto la democrazia dei partiti richiamata dalla Costituzione, non hanno mai visto formare un governo sulla base di un dibattito parlamentare sui programmi, non hanno conosciuto la possibilità della propria rappresentanza politica su base proporzionale, nè hanno mai dato un volto concreto al proprio voto per la Camera dei deputati scegliendo la preferenza nella lista dei candidati proposti.
Tutti tratti che hanno caratterizzato la partecipazione dei cittadini alla politica della Repubblica dopo la Liberazione e per i successivi cinquant'anni, e che hanno portato l'Italia (pur con tutti i limiti noti) dalla ricostruzione del dopoguerra ad una più equa redistribuzione della ricchezza prodotta, ad originalissimi modelli di gestione pubblica dell'economia, al successo internazionale della propria economia e del proprio ruolo politico nelmondo e, in particolare, nell'area del Mediterraneo.
Un processo democratico virtuoso che terminava con la partecipazione alle decisioni. Una catena spezzata da una presunta alternanza di schieramenti, un fatuo bipolarismo alla americana mai nato, che altro non ha fatto che aumentare e proliferare il numero dei partiti e gruppi parlamentari, spesso sorti in base a specifici e contingenti interessi personalistici. Apprendisti stregoni, in salsa variegata di centro-sinistra e di centro-destra.
E il votare dal 1993 con le leggi elettorali maggioritarie (il mattarellum e il porcellum) è incostituzionale poiché in contrasto con quanto sancito dall'art. 48 della Costituzione in quanto si viene a violare il diritto politico al voto libero, uguale, personale: non è libero perchè la scelta del candidato è imposta dai partiti, non è uguale perchè questi scelgono e impongono i loro candidati, non è personale perchè chi vota sceglie il partito e non la persona.
Questa l'origine della pulsione populista e autoritaria, la spinta violenta alla forzatura plebiscitaria, nel disprezzo del riconoscimento che la nostra è una Repubblica parlamentare e non presidenziale.
Il premier non esiste (se lo dovrebbero ricordare sempre in special modo i media, che del termine ne fanno abuso), il Governo riceve la fiducia dal Parlamento e non dal popolo, esiste la figura del Presidente del Consiglio, primus inter pares tra i Ministri.
Ciò che molti di noi hanno vissuto per anni oggi è drammaticamente sconosciuto alle giovani e ai giovani italiani, dopo quasi un ventennio (che inquietante parallelismo temporale...) di cosiddetta Seconda Repubblica, di spinte eversive incostituzionali, di scintillanti demagogie, di sciorinamenti pseudoriformistici idonei a camuffare l'ideologia iperliberista e conservatrice imperante.
Il ritorno ad una legge elettorale maggiormente proporzionale e rappresentativa sarebbe una novità per milioni di elettrici e di elettori, ed anche la più efficace cura per un analfabetismo politico dilagante e per la nostra enorme povertà di democrazia.
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17 agosto 2010

Mutazioni antropologiche, individuo e società. (di Maura)

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Ormai ne siamo tutti consapevoli, la società occidentale di oggi, ci impone uno stile di vita oltre le nostre capacità, economiche e sociali.
Quello che a molti sfugge è l'inconsapevolezza della collettività.
Viviamo in un sistema che ci proietta in una dimensione individualistica, dove, appunto, l'individuo, come singolo, viene prelevato e portato agli altari della gloria, viviamo nella utopica speranza di essere "noi" il suddetto individuo. Questo inevitabilmente porta il pensiero e l'azione della collettività ad un piano nettamente inferiore, quasi inesistente, affiora solo in casi estremi e sempre, e solo, sotto il pieno controllo del mercato della produttività.
Ma cosa spinge un essere umano, nato per stare in comunità, in mezzo ai suoi simili, a trasformarsi in un essere egoisticamente asociale?
La risposta è ancora una volta la stessa, la società, dove l'essere umano non è più visto come tale, ma come intermediario per un fine economico.

Noi siamo il peso lordo, contribuiamo a far si che il netto lo percepiscano sempre gli stessi individui, gli unici eletti a sedere nel trono del potere. Lo stare in gruppo, avere un fine comune, che racchiuda il bene di tutti non viene lontanamente contemplato, perchè, sempre secondo la società, questo comporterebbe ad un crollo del singolo, e qui si ritorna al discorso iniziale, al famoso altare della gloria, poi, che in questo altare, in realtà nessuno riesca a salire poco importa, la speranza di poterlo fare ci costringe ad allontanarci l'uno dall'altro ed a perseguire fini diversi.
Allontanarsi dal pensiero individualistico e perseguire la strada del pensiero collettivo, non è facile, ma neanche molto ardua.
Il primo passo da fare è l'abbattimento del concetto di proprietà privata, il resto viene naturale.
Ma quante persone sono disposte a farlo?

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16 agosto 2010

"«Pentapartito addio», disse la Cia".

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Probabilmente è colpa della mia disattenzione, ma non mi pare di aver notato discussioni al riguardo nell'ultimo mese. Perciò ripropongo questo interessante articolo uscito sul Corsera il 10 luglio, con la speranza di suscitare riflessioni.


di Ennio Caretto, Il Corriere della Sera (10/07/10)

«Nel crepuscolo della guerra fredda, grazie anche al dialogo apertosi tra gli Usa e l' Urss sotto Reagan e Gorbaciov, la Cia cambiò gradualmente idea sui comunisti italiani. Documenti che vanno dalla fine dell' 85 all' inizio dell' 88 svelano che per Washington il Pci si sta evolvendo in quel periodo «in un partito ragionevolmente moderato, di tipo occidentale, che pare accettare veramente il sistema di economia mista e l' appartenenza dell' Italia alla Nato». Un rapporto dell' 88, intitolato «Potrebbe il Pci entrare nel prossimo governo?», segnala che l' accesso al potere di quel partito non sarebbe più una calamità. Tuttavia, osserva il rapporto, «i comunisti, che si oppongono al ricorso alla forza e vogliono la riduzione degli armamenti dei blocchi, impedirebbero all' Italia di fornire truppe per operazioni Nato fuori area, ad esempio nel Golfo Persico». Che cosa fece cambiare idea alla Cia? La constatazione che alla morte di Berlinguer, nell' 84, il Pci non ne aveva ricusato l' eredità, anzi su di essa aveva creato una nuova classe dirigente e una nuova politica.

Il partito, scrive la Cia alla fine dell' 85, è a una svolta, come la Dc. «Ha un' ala marxista leninista guidata da Cossutta, un' ala moderata guidata da Napolitano, un' ala centrista guidata dal segretario Natta», ma l' ala estremista verrà emarginata a poco a poco. E perché? Perché alle elezioni di primavera «il Pci ha subito una pesante sconfitta, e Natta ha colto l' occasione per un salto generazionale nella sua direzione e per un mutamento di strategia: probabilmente i comunisti passeranno dall' alternativa democratica al dialogo con la Dc». La sconfitta elettorale del Pci, conclude la Cia, è stata un bene per l' Italia: ne ridurrà gli scontri politici. E per gli Usa: «Il Pci non è più stalinista». Secondo Washington, «la nuova élite comunista è molto meno proletaria che in passato, annovera meno leader nati in famiglie rosse e più leader del ceto medio, favorisce il dibattito interno a discapito del centralismo democratico, non è monolitica».
I suoi esponenti più importanti sono Occhetto, il numero due, e D' Alema, il primo dei giovani, gente che in politica interna «rispetta il pluralismo e si dimostra pragmatica, e in politica estera tiene le distanze da Mosca anche se continua a diffidare dell' America». Ma la convergenza tra il Pci e la Dc non sarà facile, dice la Cia, perché «l' ala moderata di Napolitano e del sindacalista Lama vuole invece la completa rottura con il Cremlino, più democrazia nel partito, e una stretta cooperazione col Psi di Craxi». Il futuro presidente della Repubblica italiana, «un socialdemocratico - si nota - non ha però dalla sua più di un quinto del partito». Il rapporto del marzo dell' 88 rafforza questa analisi: «Occhetto, l' erede apparente della segreteria (sarà eletto segretario in giugno, ndr), è propenso al lancio di un governo di salvezza nazionale con i principali partiti democratici che promuova le necessarie riforme istituzionali e socioeconomiche. Natta e Occhetto pensano che in questo modo isolerebbero Cossutta». La Cia ricorda che Natta ha incontrato il segretario democristiano De Mita e che a Palermo la Dc ha rotto con il Psi e si è alleata alla Sinistra indipendente. Registra che Craxi si è alleato con il Pci in varie città, ma sottolinea che lo ha poi aspramente attaccato. Sembra quasi rassegnata a una legittimazione dei comunisti: «Non saremmo molto sorpresi - afferma il rapporto - se il presidente Cossiga, solerte costituzionalista, chiedesse a De Mita o Andreotti, il suo rivale, di formare un governo di unità nazionale col Pci e il Psi, e se Craxi, un inveterato giocatore d' azzardo, non vi aderisse nella speranza che crolli». Nel marzo dell' 88 la Cia è del parere che il governo Goria, allora in carica, cadrà presto, e che il Pci «possa inserire nel governo successivo la sinistra indipendente». In questo caso, avverte, «verrebbero danneggiati immediati interessi americani come il trasferimento dello squadrone aereo tattico 401 dalla Spagna all' Italia». Ma il danno sarebbe relativo, in quanto la Dc «non cederebbe ministeri chiave come gli Interni, gli Esteri e la Difesa». I servizi americani non scommettono più sul pentapartito: «Alla fine degli anni Settanta ha fermato i comunisti, ma adesso la sua sopravvivenza è in dubbio a causa della guerra tra i democristiani e i socialisti». Craxi avrebbe bloccato un governo De Mita o Andreotti, spiega la Cia, e avrebbe finito per stancare «persino i centristi della Dc come Gava e Forlani che lo avevano appoggiato». Forse a chiamare i comunisti al governo sarebbe stato Andreotti: «È abbastanza opportunista da farlo se non vedesse alternative». È uno sbaglio clamoroso, perché il 13 aprile dell' 88, un mese dopo, il pentapartito, Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli, varerà il governo De Mita, a cui subentreranno i due ultimi governi Andreotti. Uno sbaglio sintomatico dell' umore di Washington verso l' Italia. Dopo avere puntato sulla Dc e sul Psi per arginare il comunismo, l' America non sa più a quale partito rivolgersi. È delusa dei leader su cui aveva fatto affidamento, e non riesce a individuarne i successori, tanto da ammonire che l' Italia, uno dei suoi più fedeli alleati, «adotterà una politica estera più indipendente, a esempio più filoaraba in Medio Oriente». La rassicurano solo l' evoluzione del Pci in senso democratico, come indica il rispetto della Cia per Napolitano e per D' Alema, e la evoluzione parallela del Cremlino sotto Gorbaciov. Un anno e mezzo più tardi il muro di Berlino crollerà, e sulla scia spariranno l' impero sovietico e «il pericolo rosso» in Italia. Da quel momento l' America accetterà serenamente i post-comunisti.»
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14 agosto 2010

L'informazione del Nuovo Millennio: Turchia, Pkk.....e Israele.

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Ma guarda che caso, verrebbe da dire.
Eh già, perché proprio di "caso" si dovrebbe parlare in determinati "casi".
Riporto la notizia così come l'ho letta su "SecondoProtocollo":
«Una serie di fotografie raccapriccianti consegnate al giornale tedesco Der Spiegel, giudicate dagli esperti autentiche, mostrano come la Turchia abbia usato armi chimiche contro il PKK. Corpi mutilati, bruciati e resi quasi irriconoscibili dai gas chimici spigionati, è questo l’orrore che si è presentato ai giornalisti tedeschi che hanno deciso di non pubblicare le fotografie».
Proviamo a capirci qualcosa, con calma.
Mi sono posto due domande, e chi vorrà potrà trarne riflessioni.
Anzitutto mi chiedo: ma si parla di quel Pkk, il Partito dei Lavoratori kurdo, indicato dai maggiori esperti di democrazia come una fucina di terroristi senza arte nè parte?
E la Turchia, è la stessa Turchia fino a non molto tempo fa indicata come una delle "poche democrazie" filo-islamiche e caldeggiata dagli Usa riguardo alla sua entrata nel circolo dell'Euro?
Probabilmente si.

Ma, nel frattempo, determinati eventi hanno stabilito un cambio delle carte in tavola.
Prima, la strage dei pacifisti turchi per mano dell'esercito israeliano sulla Freedom Flottilla (definita intervento chirurgico e necessario dallo stato sionista...).
Poi, voci (non smentite...) che sostengono il sostegno economico e l'addestramento militare fornito dai servizi segreti israeliani a gruppi armati del Pkk.
Qualcuno soleva dire che a pensar male non si fa peccato. E ho l'impressione che anche in questo caso i conti tornino.
Scopro l'acqua calda se dico che mi pare che gli obbiettivi geopolitici dell'impero Americo-Sionista siano cambiati?
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4 agosto 2010

"Io, comunista, disfattista. (Mentre altri preparano, scrupolosamente, la disfatta)"

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(Prc Vibo Valentia)
«Sarò sintetico, riducendo all’essenziale ogni argomentazione.
E’ ormai definitivo il documento di presentazione della Federazione della Sinistra, che fa da introduzione e da impianto teorico-politico al congresso costituente. Un manifesto vacuo e generico che mostra lungo i suoi 4 capitoli, 16 paragrafi e 29 pagine, senza alcun pudore, i limiti e le contraddizioni della classe dirigente della Sinistra.
Proprio così, della classe dirigente che ha voluto e perpetrato una scelta di vertice per attraccare ad un indefinito porto.
Già le premesse ideologiche lasciano sgomenti, per quello che si potrebbe definire una piattaforma, una base o più semplicemente un programma né di lotta né di governo. Il Socialismo del XXI secolo, ampiamente richiamato, è la feroce e spaventosa alternativa che si agita in faccia alla borghesia dominante. L’obbiettivo a cui tendere, senza però alcuna lotta; bandita ogni rivoluzione, ogni violenza: un più elegante gradualismo democratico è la nuova via, più appropriata per le antagoniste, ma pur sempre raffinate classi lavoratrici del terzo millennio.

Del resto, tutto si fa più chiaro (sic!) giungendo al secondo paragrafo “Le cause della crisi e la necessità del superamento del capitalismo” che rappresenta il punto più alto dell’elaborazione teorica dell’intero documento, il nucleo più fecondo dell’analisi, dentro la quale Pomigliano riesce a rimanere una semplice indicazione geografica, il Padrone un birbantello prepotente, e nulla più viene abbozzato circa i rapporti di forza, i modi produzione e il nuovo autoritarismo aziendale che non si supera di certo con qualche referendum. La prospettiva viene indicata in “un lungo e profondo processo di cambiamento” che porterà appunto alla sostituzione dell’attuale sistema con il Socialismo del XXI secolo.
L’effetto, dunque, viene chiarito, senza che però si capisca dove si possa rintracciare la minima causa.
E’ il paragrafo successivo che spiega dove trae origine questa misera operazione dirigista. Qui si comprende meglio che tutta l’elaborazione è il frutto di una volontaria e cosciente sintesi, una mediazione distillata, che si genera dalla smania irrefrenabile, dall’ansia dell’unità. E’ altrettanto evidente, quindi, che per superare la crisi della Sinistra si sia pensato che la migliore soluzione si possa trovare nelle scelte politiciste ed organizzative. E che l’analisi autoassolutoria sullo stato attuale dei partiti della sinistra serva da alibi, da giustificazione. Poco importa, poi, se nessuno - ne sono più che mai certo! – dico nessuno, soprattutto i dirigenti che hanno avanzato la proposta della Federazione, abbia capito che cosa si stia andando a fare realmente.
Solo nel mio partito, su tre correnti di maggioranza, tre correnti indicano la Federazione, ma intendono cose nettamente diverse. Senza che nessuno sappia spiegare cosa realmente sia la Federazione, qualcuna dissimula, qualcun'altra mente sapendo di mentire, la terza si mostra la più dura e pura, ma ciò non basta ad indicare la nuova rotta: tutti sono disorientati.
Più di tutte, poi, risalta un’ulteriore contraddizione: “Chi condivide questa analisi e questi obiettivi – si legge nel documento - ha il dovere di unirsi e battersi per un’alternativa di società. Solo con l’unità è possibile reagire al concreto rischio della scomparsa in Italia di una Sinistra degna di questo nome.”
Il messaggio è quanto mai chiaro, ma si da il caso che io – palesemente contrario a questa proposta - sia iscritto al partito che, bene o male, risulta essere l’azionista di maggioranza. E come me, nella mia stessa condizione, credo anche altri.
Per quanto mi riguarda non mi unirò, pur rimanendo iscritto al mio partito, e non capisco cosa ciò possa comportare. Di sicuro, lascerò ad altri sprecare le ultime residue energie per organizzare e svolgere l’ennesimo congresso per l’unità.
Mentre il mondo, lì fuori, va da tutt’altra parte.»
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